La guerra mondiale delle risorse naturali

Guerre per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre per la terra, guerre per l’atmosfera: è questo il vero volto della globalizzazione economica, la cui sete di risorse sta oltrepassando i limiti della sostenibilità e della giustizia. Dove c’è petrolio, c’è conflitto.
Per quanto si voglia stendere sull’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq (e sulla minaccia di un’invasione dell’Iran) la patina di una guerra culturale, la vera questione era ed è il controllo del petrolio. Il servizio in copertina del 22 maggio 2006 di Time Magazine, «The Deadly Delta», era dedicato ai conflitti che il petrolio ha scatenato nel delta del Niger. Newsweek del 15 maggio 2006 conteneva articoli sulla politica del petrolio come «Arte nera».
Il petrolio è diventato la base della strategia di Hugo Chavez in Venezuela e di Evo Morales in Bolivia per tracciare una mappa post-globalizzazione e post-imperialista del mondo.
Come il petrolio, l’acqua sta diventando fonte di guerre perché viene mercificata e privatizzata, incanalata e trasferita per lunghe distanze. Le grandi dighe deviano l’acqua dai sistemi naturali di drenaggio dei fiumi. Alterando il corso di un fiume si modifica anche la distribuzione dell’acqua, specialmente se questa viene trasferita da un bacino all’altro.
La modifica dei corsi d’acqua molto spesso genera dispute tra stati, dispute che si trasformano rapidamente in conflitti tra governi centrali e stati.
In India, tutti i fiumi sono diventati oggetto di conflitti irrisolvibili sulla proprietà e la distribuzione dell’acqua. Anche il rapimento del popolare attore del cinema indiano Rajkumar da parte del bandito della foresta Veerappan, nel 2000, era collegato a un conflitto tra gli stati Karnataka e Tamil Nadu per l’acqua del fiume Kaveri. Nelle Americhe, il conflitto tra Stati uniti e Messico per il fiume Colorado si è intensificato negli ultimi anni.
Le acque del Tigri e dell’Eufrate, che hanno alimentato l’agricoltura per migliaia di anni in Turchia, Siria e Iraq, sono state la causa di grossi scontri fra i tre paesi. Entrambi i fiumi nascono in Turchia, la cui posizione ufficiale è: «L’acqua è nostra tanto quanto il petrolio iracheno è iracheno».
In una certa misura, la guerra tra israeliani e palestinesi è una guerra per l’acqua. Il fiume conteso è il Giordano, usato da Israele, Giordania, Siria, Libano e Cisgiordania. Le grandi coltivazioni agricole di Israele necessitano dell’acqua del fiume, oltre che di quella freatica della Cisgiordania. Sebbene solo il 3% del letto del fiume Giordano si trovi in Israele, esso garantisce il 60% del suo fabbisogno d’acqua.
La guerra del 1967 è stata in effetti una guerra per l’occupazione delle risorse idriche provenienti dalle alture del Golan, dal mare di Galilea, dal fiume Giordano e dalla Cisgiordania. Come osserva lo studioso mediorientale Ewan Anderson, «la Cisgiordania è diventata una fonte cruciale di acqua per Israele, e possiamo affermare che questa considerazione sopravanza altri fattori politici e strategici».
I finanziamenti della Banca mondiale e della Banca per lo sviluppo asiatico (Adb) stanno scatenando anch’essi guerre per l’acqua tra stati e cittadini. Ad esempio, quando è stata costruita una diga sul fiume Banas in Rajasthan per deviarne il corso verso le città di Jaipur e Ajmer, cinque abitanti di un villaggio che chiedevano di poter accedere all’acqua per l’uso locale sono stati uccisi dalla polizia, il 26 agosto 2005. Il gigantesco River-Linking Project, un progetto da 200 miliardi di dollari Usa, prevede che vengano costruite dighe e che siano deviati tutti i fiumi dell’India, e certamente causerà milioni di guerre per l’acqua.
Invece di riconoscere che l’impronta ecologica della globalizzazione sta distruggendo la terra e le persone, la nuova élite culturalmente e intellettualmente sradicata parla di «troppe persone» sul territorio. Essa parla persino di risorse naturali come di un relativo svantaggio.
Un recente articolo del ministro delle finanze del Kerala era intitolato: «Quando le risorse naturali sono una minaccia per le nazioni: relativo svantaggio» (Alok Sheel, «When Natural Resources Are A Menace For Nations: Comparative Disadvantage», Financial Express, 12 aprile 2006). L’articolo afferma: «L’idea che le risorse naturali possano contribuire al relativo svantaggio delle nazioni è relativamente recente. Se lo stato non è in grado di mantenere l’ordine pubblico, le attività economiche crollano o migrano. Le risorse naturali però non possono migrare, e sono facile preda dei gruppi militanti». L’autore continua affermando: «Le risorse naturali non hanno valore economico alla fonte. Quindi ciò che conferisce loro valore economico sono le vie d’accesso – in continuo aumento – attraverso cui entrare nel commercio globale grazie all’abbassamento delle barriere commerciali».
Questa liberalizzazione del commercio sta permettendo alle corporations di violare lo spazio ecologico delle comunità locali, scatenando così i conflitti. Per le popolazioni locali, le risorse naturali come la terra o l’acqua hanno decisamente un valore. Negare valore alla fonte significa negare i diritti primari e gli usi primari della terra e dell’acqua. È così che le economie neoliberiste creano un vicolo cieco ecologico e sociale e possono ridefinire le risorse naturali, la base stessa della vita, come «minaccia» e «relativo svantaggio».
Il problema non sta nelle risorse naturali, ma nel libero commercio e nella globalizzazione. Il problema non sta nelle persone ma nell’avidità delle corporations e nelle alleanze tra le corporations e gli stati per usurpare le risorse delle persone e violare i loro diritti fondamentali.
Se la globalizzazione procederà senza sosta, queste guerre per le risorse aumenteranno ed essa stessa sarà fermata dalle catastrofi ecologiche e dai conflitti per le risorse – oppure, i movimenti per la sostenibilità ecologica e per la giustizia sociale riusciranno a resistere all’inganno economico della globalizzazione gettando le fondamenta per una Democrazia della Terra, in cui sia possibile abitare la terra con leggerezza e distribuire le sue risorse vitali in modo equo.

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Traduzione Marina Impallomeni