«La guerra è utile»: un «investimento»

La «guerra è utile» e le vite dei soldati americani e i miliardi di dollari gettati in Iraq sono «un buon investimento», parola di Condoleezza Rice che per l’occasione è corsa in aiuto di un George Bush ormai palesemente groggy. Ma sia chiaro, lei non sta parlando di petrolio, (ci mancherebbe. E’ un buon investimento per «quando l’Iraq emergerà come un fattore di stabilizzazione avremo un Medio Oriente completamente diverso».
E’ da quando è uscito l’ormai famoso (e inutile) rapporto bipartisan di James Baker e Lee Hamilton che ad ogni uscita pubblica il presidente peggiora la sua situazione. Aveva annunciate «il» discorso sull’Iraq entro Natale e poi ha detto che no, se ne parla nell’anno nuovo. L’altro giorno ha cercato di conciliare l’altrettanto famoso «non stiamo vincendo questa guerra» del suo nuovo segretario della Difesa Robert Gates con il «non stiamo vincendo ma non stiamo neanche perdendo» e dopo 24 ore, terrorizzato dall’eco che quelle parole avevano avuto sui media americani, si era arrampicato sugli specchi sostenendo che era un modo di dire e che comunque la guerra in Iraq «si può vincere».
Ora, l’uscita sulla «guerra utile» e il «buon investimento» della Condoleezza – che ha appositamente convocato al dipartimento di Stato una cronista dell’Associated Press per fare la sua esternazione – ci dice che anche lei crede nella «vittoria», sicché la novità ha tutta l’aria di un tentativo estremo di Bush di «mantenere la rotta» come ha sempre detto. Non necessariamento perché ci crede ma perché non sa cos’altro pensare. Solo che non potendo più ricorrere al suo vice Dick Cheney (quello secondo cui l’incremento della violenza in Iraq degli ultimi mesi era «l’ultima disperata risorsa di quelli che stanno perdendo») che ha una credibilità perfino inferiore alla sua; non essendoci più Donald Rumsfeld per il quale la colpa era tutta dei giornalisti che «preferiscono concentrarsi esclusivamente sulle brutte notizie», a Bush non restava che la Condoleeza, a torto o a ragione considerata l’esponente più «presentabile» di questa amministrazione.
Vale infatti la pena di ricordare che per l’anno che sta per cominciare Bush ha già chiesto al Congresso altri 100 miliardi di dollari da aggiungere ai 350 già spesi in questa sciagurata guerra e che stavolta dovrà vedersela non con i docili deputati e senatori repubblicani in maggioranza finora, anche se è ancora da vedere se e quanto i democratici saranno capaci di «resistere» ( (non pochi fra loro hanno già prospettato la possibilità di dire sì a un aumento delle truppe «se serve a concludere prima la guerra»). E poi la resistenza ad accogliere, seppure a malincuore, le osservazioni dei «saggi» Bush l’aveva già manifestata nei giorni successivi alla presentazione di quel rapporto, quando aveva dato vita a una serie di eventi, in gran pompa a beneficio delle tv, con i dirigenti al Pentagono (Rumsfeld era ancora in servizio), con quelli del dipartimento di Stato, con i generali, eccetera, per sottolineare che in fondo le raccomandazioni di Baker e Hamilton non erano che «una» delle fonti da cui lui stata cercado di trarre ispirazione.
L’impressione è insomma che si stia avverando il timore che molti avevano espresso al momento della presentazione del rapporto e che sostanzialmente si riassumeva in un quesito: «Sarà capace Bush di ascoltare per una volta non soltanto quelli che gli dicono ciò che lui vuole sentirsi dire?».
Intanto proprio ieri a Baghdad c’era Robert Gates che ha trovato il modo di dire che ciò che ha trovato non è poi così male. «In base a quel che ho visto e sentito sia dagli iracheni che dai comandi militari americani – ha detto – le cose si stanno muovendo in una direzione positiva». L’unico problema – questo però non lo diceva Gates ma i dispacci da Baghdad – è quello di Moqtad al-Sadr, che gli americani vorrebbero far fuori mentre il premier Al-Maliki vuole dentro la coalizione di governo, nonostante le sue milizie o più probabilmente nel timore di esse.
Non si sa se la cosa fosse stata studiata, ma è un fatto che il viaggio di Gates in Iraq ha coinciso con la sentenza contro i responsabili del massacro di Haditha (4 marines all’ergastolo, 4 loro superiori condannati per non avere controllato abbastanza), quasi a rassicurare che gli Stati uniti sanno anche fare giustizia. Ma le reazioni della gente di lì arrivate fino in America non mostrano di apprezzare. Una per tutte: «Hanno fatto come con Abu Ghraib, sotto processo dovevano andarci Bush e Rumsfeld».