L’Italia, a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame. Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra. Questa è la strada, la strada della pace che noi dobbiamo seguire.
SANDRO PERTINI
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L’ulteriore impegno dell’Italia in Libia (…) costituisce il naturale sviluppo della scelta compiuta dall’Italia a metà marzo, secondo la linea fissata nel Consiglio Supremo di Difesa da me presieduto e quindi confortata da ampio consenso in Parlamento.
Ancora una volta i Comandi e vari comparti delle nostre Forze Armate sono chiamati a fare la loro parte con la professionalità e la dedizione che li distinguono.
GIORGIO NAPOLITANO
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Viviamo in un paradosso che ha i contorni di un terribile incubo. L’Italia stralcia la sua Costituzione e, in barba al famoso articolo 11, partecipa ad una missione militare offensiva nei confronti della Libia, dove è in corso una guerra civile. E noi ci imbarchiamo in questa avventura proprio con l’intento dichiarato di voler dirimere una controversia internazionale: siamo al rovesciamento dei principi costituzionali. Per di più le decisioni sono assunte dal Presidente del Consiglio in persona, ma non potrebbe, visto che il luogo deputato a tale decisione è il Parlamento; e il Presidente della Repubblica difende e giustifica questa posizione, ma non dovrebbe, visto che a Lui compete il ruolo di garante proprio di quella Costituzione che queste scelte vieta espressamente. A questo si aggiunge il cattivo gusto della temporalità di tali affermazioni: la decisione di appoggiare l’aggressione alla Libia viene data in un discorso commemorativo del 25 Aprile. Quasi a dimenticare che quella data rappresenta, tra le altre cose, la liberazione dalla guerra ed il Leviatano della Costituzione stessa.
L’assenza dal parlamento dei comunisti ci rende afoni ed impotenti di fronte a questa ennesima avventura bellica e sembra quasi che, ad interpretare i sentimenti pacifisti in Italia, sia rimasta solo la Lega Nord. Ma al peggio, si sa, non c’è mai fine. E basta vedere le posizioni del Pd sulla vicenda libica per rendersene conto. Non solo mentre i tamburi di guerra cominciavano a rullare, il giornale fondato da Antonio Gramsci ospitava in prima pagina la bufala delle fosse comuni, ma appena le asce di guerra si sono levate al cielo, i dirigenti del Pd non hanno fatto mancare il loro appoggio alla missione, criticando lo stesso Berlusconi perché troppo cauto. Se tutto questo non fosse vero, ci sarebbe quasi da ridere. Ma purtroppo questa è l’istantanea che fotografa un paese senza più anticorpi e che, proprio come re Mitridate (è stato ricordato recentemente da Cacciari), è talmente assuefatto dal veleno fin’ora assunto, che oramai nulla riesce a fargli più effetto.
A tutto questo va registrata la difficoltà della rinascita di un movimento contro la guerra degno di questo nome. Il sogno obamiano, suggellato da un Nobel per la pace datogli sulla fiducia, ha imbrigliato lo sviluppo di un movimento di contestazione e contro la guerra negli Usa e nel mondo. Poco importa che il democratico Barack Hussein abbia ordinato, in soli due anni, più bombardamenti con i droni su suolo afghano, di quanti il guerrafondaio Bush abbia fatto nel corso dei due mandati presidenziali. La sua figura e le speranze da lui sollevate hanno tarpato, nei fatti, le ali ai movimenti sociali e contro la guerra del paese di punta della triade imperialista, con ripercussioni in tutto il mondo. Ed in Italia purtroppo l’antiberlusconismo non è riuscito, visto il contesto politico, a fare un salto nella direzione di una maggiore consapevolezza antimperialista ed antimilitarista, rimanendo così su un terreno moralista e giustizialista (pur importante).
Da dove ripartire quindi? Innanzitutto da un lavoro certosino di sensibilizzazione di tutte le coscienze democratiche e civili di questo paese e poi cercando di portare argomenti sul perché “convenga” essere contro questa ennesima guerra. Su tutti, il più forte è sicuramente quello delle spese militari. Se un disoccupato o un giovane precario che manifesta per il sacrosanto diritto al lavoro, riuscisse a rendersi conto del fatto che il suo futuro gli è precluso perché le risorse, che ci sono, sono utilizzate per portare morte e distruzione ad un altro popolo, allora forse il vento comincerebbe a cambiare. È su questo terreno che i comunisti ed i movimenti contro la guerra possono sinergicamente lavorare. I dati parlano da soli: ogni volta che viene sparato un missile Cruise Tomahawk spendiamo 533mila euro, qualcosa come i soldi che potrebbero essere dati a 40 giovani lavoratori (con uno stipendio medio) per un anno intero. Solo nella prima fase della guerra, il Pentagono ha detto che di questi missili ne sono stati sganciati 110 (e quindi spesi 58milioni e 630mila euro).
L’attuale flotta italiana impiegata nell’operazione Unified Protector consta di 12 velivoli (8 dell’Aeronautica e 4 della Marina) composta per circa la metà da caccia (Typhoon da impiegare per il controllo della no fly zone) e per metà da jet (Tornado Ecr, equipaggiati con missili antiradar Harm). Pare che nei prossimi giorni questi jet potranno essere sostituiti [cfr. I costi (e l’eventuale copertura) della guerra italiana in Libia, il Foglio 28/04/2011] con bombardieri (Tornado Ids che montano ordigni a guida laser o gps) dotati di missili da crociera Storm Shadow. Il costo di uno solo di questi missili si aggira attorno al milione di euro e cioè ad una cifra pari a quanto spenderemmo per pagare lo stipendio a più di 8mila ricercatori per un anno intero, se solo lo volessimo. E c’è addirittura chi [cfr. Federico Cerrutti, I numeri della nostra guerra, Europa 28/04/2011] afferma che il numero dei velivoli italiani impiegati salirà a 20.
Ma quanto costerà questa guerra? Almeno un miliardo di euro. È il prezzo che paghiamo per esserci schierati con i falchi all’interno della Nato (facendo finta di non vedere che la Germania e la Turchia, pur facendo parte dell’Alleanza Atlantica, hanno un approccio molto diverso). Non parliamo poi di quanto questa scelta ci metta in contrapposizione con il resto del mondo che critica l’intervento, a partire dai paesi del BRICS e dell’Unione Africana che lavora per una mediazione politica tra le fazioni in lotta (che è ciò che si deve fare, durante una guerra civile). Nel primo mese di guerra sono stati spesi (tra impiego di mezzi aerei e navali) 50 miliardi di euro e, solo per le cinque navi della flotta schierata al largo delle coste libiche, si spendono 350 mila euro al giorno per ciascuna.
Il 25 Aprile il Presidente della Camera, in visita alle truppe italiane in Afghanistan (che lì svolgono combattimenti e partecipano all’occupazione del paese), ha dichiarato che difficilmente si potrà rispettare l’impegno al ritiro per il 2014. Altri costi, prolungati nel tempo, che si sommano a quelli della missione in Kosovo (650 militari per 72 milioni di euro l’anno) e in Libano (1400 militari per 212 milioni di euro l’anno) e che fanno circa 1,5 miliardi l’anno di spesa.
Viviamo in un paese in agonia economica, con le piccole e medie imprese al collasso, centinaia di migliaia di lavoratori in cassa integrazione, quarantenni licenziati che non verranno mai più assunti e giovani che oggi vivono l’incertezza del posto di lavoro e domani la certezza che non avranno la pensione. In un paese così, fino a quando sarà tollerabile sentirsi dire dal governo (e da una certa opposizione) che non ci sono i soldi per tutti e che dobbiamo andare, ancora una volta, a fare la guerra?