LA GUERRA DEL GREGGIO, SI FA, MA NON SI DICE

Nel dibattito sulla campagna militare contro Osama Bin Laden e il regime talebano in Afghanistan, c’è una parola che ogni tanto compare e però fa fatica a conquistare quella centralità che le sarebbe dovuta. Questa parola è «petrolio». I primi ad evitare di usarla sono i seguaci dello sceicco terrorista che, nei loro proclami di guerra santa, rovesciano sull’Occidente ogni genere di recriminazione storica o di violenta minaccia attuale, ma nulla dicono sul nodo cruciale del greggio. Altrettanto, però, sta accadendo anche all’interno della grande alleanza che si è formata attorno agli Stati Uniti dopo la tragedia dell’11 settembre. Il giusto principio della difesa dei paesi occidentali dai pericoli del terrorismo islamico viene argomentato, in nome dell’esigenza di tutelare la sicurezza e la libertà della vita sociale e individuale, sotto mille aspetti fondamentali. Fuorché uno: la certezza di quei rifornimenti energetici, che pure sono una componente non secondaria della vita in Occidente.
Questo processo di oscuramento appare davvero singolare per almeno due ragioni geoeconomiche piuttosto serie. Nella grande area islamica fra il Kazakhstan e il Mar Rosso, alla quale Bin Laden indirizza i suoi appelli alla mobilitazione politicoreligiosa nel nome di Allah, è concentrato il 65/70 per cento delle riserve del mondo intero. Al tempo stesso, le maggiori economie dell’Occidente fronteggiano una dipendenza esterna da petrolio in una misura del 60 per cento del fabbisogno negli Stati Uniti e di poco inferiore (il 58) in Europa. Sono cifre che fanno riflettere perché indicano una condizione di vera e propria sudditanza.
Per giunta, aggravata da tre fattori pesanti. Primo: le mitiche riserve americane, agli attuali livelli di consumo, hanno un orizzonte di vita di poco superiore ai dieci anni. Secondo: i giacimenti europei del Mare del Nord costituiscono appena l’1,5 per cento delle riserve mondiali. Terzo: l’emancipazione dal petrolio resta per l’Occidente un traguardo lontanissimo in quanto lo sviluppo di fonti energetiche davvero sostitutive del greggio richiederà qualche decennio.
Sembra il caso di ricordare che un analogo processo di rimozione della parola petrolio ha un precedente nel 1990, durante la guerra del Golfo. Anche allora il ricorso alle armi per liberare il Kuwait dall’occupazione irakena fu spiegato soprattutto con l’esigenza di restaurare il diritto internazionale violato, mentre un velo di ipocrisia fu steso sul tema petrolifero. Benché fosse del tutto evidente che il pericolo maggiore da contrastare era che Saddam Hussein, sommato il proprio greggio a quello dei pozzi kuwaitiani, avrebbe potuto puntare sull’Arabia Saudita e diventare così il padrone dell’Opec. Con esiti facilmente immaginabili sui prezzi di una materia prima energetica essenziale: non solo per il benessere del mondo occidentale, ma addirittura per la vita stessa dei paesi più poveri del pianeta.
Oggi è sorprendente notare come la stessa storia si stia ripetendo. Certo, dopo le stragi di New York e Washington, innanzi tutto viene il dovere di combattere le organizzazioni terroristiche perché queste hanno infranto sanguinosamente le più elementari regole della convivenza civile e minacciano di continuare a farlo. Ma questo non può far dimenticare che l’Afghanistan si trova nel cuore di un’area geopolitica nella quale si concentrano le maggiori risorse petrolifere del mondo. Se Osama Bin Laden o chiunque altro al suo posto riuscisse a costruire – facendo leva sulla guerra santa contro gli infedeli – un fronte comune dei popoli e dei regimi che stanno fra il Kazakhstan e il Mar Rosso, non l’Opec ma il mercato petrolifero mondiale avrebbe trovato il suo padrone assoluto. Con conseguenze che è eufemistico definire devastanti per un’economia planetaria ancora così dipendente dalle forniture di greggio, come hanno mostrato le cifre precedenti.
Sia chiaro: queste considerazioni non possono né devono legittimare una sorta di militarizzazione del mercato petrolifero internazionale per iniziativa dei paesi consumatori. Ma che questi ultimi si organizzino per impedire che uno speculare tentativo di militarizzazione sia realizzato dai paesi produttori sembra il minimo indispensabile. Ed è proprio in questa ottica che non si spiega il diffuso «understatement» sull’argomento. Che non parlino delle loro inconfessabili ambizioni in proposito i vari Saddam o Bin Laden è perfettamente logico perché costoro non hanno alcun interesse a scoprire le proprie carte. Anche Hitler, nel ‘38 a Monaco, assicurò che non avrebbe toccato la Polonia. Molto meno comprensibile è che siano i maggiori governi dell’Occidente a non avere il coraggio esplicito di porre l’esistenza di un articolato mercato petrolifero mondiale fra i punti irrinunciabili della propria dottrina di politica internazionale.
In realtà, tutti sappiamo che il nodo petrolifero è oggi ben presente all’attenzione delle cancellerie d’Europa e d’America, come lo era nel 1990.
Tuttavia, è proprio questa linea del «si fa, ma non si dice» che appare oggi pericolosa. Innanzi tutto, perché rischia di alimentare equivoci dannosi nella comunicazione tra governanti e governati nel momento più sbagliato: il ricorso alla forza nella lotta ai terroristi si profila come una guerra di lunga durata e, quindi, richiederà un appoggio continuo e costante da parte dell’opinione pubblica. Ma poi anche perché, nascondendo la centralità della questione petrolifera, si falsano già ora i termini del dibattito politico tra favorevoli e contrari agli interventi armati in corso.
Al riguardo la lezione dell’Italia è esemplare. Come mai, per esempio, gli interventisti della sinistra evitano di usare l’argomento del petrolio nei loro dibattiti coi pacifisti? Perché sembrano manifestare una sorta di complesso di inferiorità dinanzi agli slogan antimilitaristi di chi sa proporre non soluzioni ma fughe dai problemi? Forse pesa ancora sulle loro coscienze l’antico vizio di considerare gli interessi economici come un frutto avvelenato della logica capitalista? E’ ora e tempo per tutti di rimettere i piedi sulla dura terra. Un mercato petrolifero mondiale sotto il tallone di un potere ideologicomilitare come quello che sognano Bin Laden e altri personaggi della sua risma sarebbe un colpo esiziale per le economie dell’Occidente. Altro che le domeniche a piedi, così desiderate dai Verdi nostrani. Altro che un’equa divisione internazionale del lavoro, come piacerebbe a Fausto Bertinotti. A piedi rischieremmo di andare per tutta la settimana, mentre a milioni di persone l’automobile non servirebbe solo perché non avrebbero più un luogo di lavoro da raggiungere. Per non dire delle immense tragedie che si consumerebbero nei paesi più miserabili, dove si muore di fame anche perché già adesso un barile di greggio è merce troppo cara.
Coraggio, quindi: si parli di petrolio e senza falsi pudori.