La guerra che nasce da una politica sbagliata

La caduta di un regime sanguinario come quello di Saddam è una speranza che deve essere condivisa. Peccato che questa affermazione indichi un problema, ma non anche la sua soluzione. La questione aperta è se la guerra in corso sia lo strumento migliore per raggiungere quel fine e, soprattutto, se e quanto siano politicamente affidabili le mani di coloro che hanno impugnato le armi per portare – come dicono – la democrazia in Iraq.Infatti, poiché la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, il primo interrogativo da porsi è di quale politica il conflitto in atto sia la continuazione. In proposito vale la pena di ricordare di quali e quanti errori strategici sia figlia la guerra che oggi gli angloamericani stanno conducendo. Errori compiuti dalla stessa filiera politica (la presidenza Reagan e quella di Bush senior) che ha portato George W. alla Casa Bianca.
Errori – si rassicurino coloro che fiutano l´antiamericanismo ad ogni stormir di dissenso – rilevabili sulla base di dibattiti e documenti del Congresso, ovvero in forza di fonti del tutto americane.Quando, nel luglio 1979, il potere a Bagdad passa nelle mani di Saddam, la presidenza di Jimmy Carter non esita ad inserire l´Iraq nella lista dei paesi sospettati di proteggere il terrorismo arabo, coi quali è vietato intrattenere rapporti commerciali e finanziari. Questa linea cambia, però, radicalmente dal 1981 con l´ingresso alla Casa Bianca di Reagan. Il neopresidente si trova dinanzi a una situazione mediorientale assai complicata: dal settembre 1980 è in corso un aspro conflitto fra Iraq e Iran. In via ufficiale l´amministrazione americana dovrebbe attenersi a una linea di stretta neutralità, in realtà – all´insaputa del Congresso, come poi rivelerà lo scandalo Iran-Contra – gli uomini di Reagan avviano un´ambigua politica di aiuti al regime di Teheran nel timore che il più dotato esercito iracheno possa prevalere facendo di Bagdad la capitale egemone sia nell´area del Golfo sia sul mercato del petrolio.Gli aiuti vanno così tanto a buon fine che, nella primavera 1982, le forze iraniane scatenano una controffensiva su vasta scala penetrando in Iraq. A Washington prende piede un timore opposto: che l´egemonia dell´area finisca in mano all´ayatollah Khomeyni. Cia e servizi militari ricevono un brusco contrordine: ora bisogna sostenere il regime di Bagdad. Questa svolta filo-Saddam si dispiega su un largo ventaglio di opzioni. Sul versante militare, si fanno arrivare informazioni segrete ai comandi iracheni e si attiva un flusso clandestino di armi. Sul versante finanziario, l´Iraq è ammesso agli aiuti creditizi di due importanti enti federali, la Credit Commodity Corporation e la Export-Import Bank. Il tutto sempre alle spalle del Congresso, che verrà a conoscenza di queste manovre occulte solo anni dopo durante le inchieste sul caso Bnl-Atlanta.Quando emergerà, per esempio, che l´Eximbank – riottosa a finanziare un debitore poco affidabile come l´Iraq – viene costretta a piegarsi alla volontà della Casa Bianca da forti pressioni del sottosegretario di Stato Eagleburger e dell´allora vicepresidente Bush senior (Atti della Camera dei rappresentanti, seduta del 24 febbraio 1992). Pressioni che verranno ripetute nel 1984 e ancora più pesantemente nel 1987 di fronte alle resistenze dei capi dell´Eximbank che insistono nel denunciare l´Iraq come un pessimo pagatore. (Atti Camera, sedute del 24 febbraio e 2 marzo 1992). Chiosa così per l´occasione il deputato Henry B. Gonzalez, presidente del Banking Committee: «Nonostante la situazione finanziaria dell´Iraq non fosse cambiata in modo sostanziale in quel periodo, il dipartimento di Stato continuò ad esercitare pressioni sull´Eximbank affinché ampliasse il suo programma a favore dell´Iraq. Tale sostegno avvenne malgrado l´utilizzazione di gas venefici da parte dell´Iraq per sterminare migliaia di curdi e nonostante le abbondanti prove del fatto che Saddam aveva accelerato il processo di costruzione di armi di distruzione di massa».La cosa più stupefacente è che gli aiuti americani al tiranno di Bagdad continuano anche dopo la fine (agosto 1988) della guerra con l´Iran. In quel momento gli Usa avrebbero il potere di determinare la caduta del regime di Saddam. Otto anni di guerra feroce con l´Iran hanno svuotato gli arsenali militari e alimentari del paese: basterebbe un soffio per far crollare il dittatore. Ma Washington persevera sulla strada già clandestinamente intrapresa. Anzi, con l´arrivo di George Bush senior alla Casa Bianca (20 gennaio 1989), la politica filoirachena subisce un rilancio con più copiosi aiuti finanziari. Nell´autunno di quello stesso anno – a dispetto perfino della Federal reserve, che è allarmata per lo scoppio del caso Bnl-Atlanta avvenuto nell´agosto precedente – viene firmata in segreto dal presidente la «Direttiva per la sicurezza nazionale numero 26» con la quale si ordina di incrementare il sostegno al regime di Bagdad. E non si tratta di aiuti solo creditizi. In una lettera al presidente Bush del 31 gennaio 1992, il deputato Gonzalez accusa con circostanziati riferimenti l´amministrazione di aver tenuto nascosto al Congresso che numerose aziende americane sono state coinvolte nello sviluppo dei progetti missilistici di Saddam.Numerosi altri atti e fatti potrebbero essere citati a dimostrazione della scomoda verità che il mostro di Bagdad è nato per suo conto ma è stato alimentato e fatto crescere soprattutto dal sonno della ragione, che per lunghi anni ha dominato la politica americana verso l´Iraq. Al punto che c´è voluta l´arrogante violazione del diritto internazionale compiuta da Saddam con l´invasione del Kuwait per spingere – finalmente – Washington a prendere atto degli enormi errori compiuti. Ma, anche in questo caso, non senza sollevare altri e non meno seri dubbi sulla sagacia diplomatica e sulla perizia strategica della politica americana. Perché le truppe del generale Schwarzkopf furono improvvisamente fermate sulla via di Bagdad, quando stavano per mettere in ginocchio la dittatura di Saddam? Perché, in alternativa al colpo finale, si è scelta la via di anni e anni di embargo, al termine del quale – ora ci se ne accorge – gli iracheni affamati nutrono sentimenti antiamericani anche più forti dell´odio per il loro tiranno? Sfugge il senso di questa politica e, dunque, anche quello della guerra che ne dovrebbe essere la prosecuzione.Ci vuole solo la pochezza vassalla degli attuali reggitori della politica estera italiana per pensare che di fronte ai problemi aperti dalla tormentata storia dei rapporti fra Stati Uniti e Iraq, oggi tutto si possa risolvere con slogan di basso conio additando coloro che dissentono come antiamericani o, addirittura, come complici di Saddam. La storia insegna che i veri alleati sono coloro che aiutano il principe a capire i suoi errori, non quelli che gli scodinzolano intorno, spesso ipocritamente ossequienti.P. S. Nel gennaio 1991, come senatore della Sinistra Indipendente, votai a favore della partecipazione italiana alla guerra del Golfo. Allora si trattava, con il pieno appoggio dell´Onu e dell´Unione europea, di restaurare un diritto internazionale violato dall´invasione del Kuwait e di impedire che, annettendosi questo Stato, l´Iraq acquisisse una posizione dominante nel cartello petrolifero dell´Opec. Non me ne vogliano i pacifisti: nelle medesime circostanze ripeterei quel voto. Oggi non sono più senatore, comunque non trovo ragioni valide per condividere una scelta americana sempre oscura nei suoi fini ultimi e pericolosamente avventurosa per le conseguenze che può avere sui rapporti atlantici e sull´ordine mondiale.