LA GRANDE PAURA

Fino a pochissimi giorni fa, chi ventilava la possibilità di pesanti ripercussioni negative della guerra irachena sull’economia americana e mondiale veniva bollato come catastrofista e magari come antiamericano. Oggi gli si riconosce di aver visto giusto ed è sicuramente tempo per tutti di abbandonare queste reazioni viscerali, questi atteggiamenti strettamente legati all’emotività e di procedere, invece, a diagnosi spassionate; occorre avere il coraggio di guardare fino in fondo dentro a quel terribile vaso di Pandora che inconsapevolmente gli americani hanno aperto con l’inizio delle ostilità. Delle varie alternative possibili ancora due settimane fa, l’attacco americano ha subito cancellato quello preferito dai mercati, ossia l’assenza di una guerra i cui costi, non solo economici, venivano visti con preoccupazione. Pur senza partecipare a manifestazioni, gli operatori finanziari si sono, per quanto non per motivi idealistici, schierati fermamente dalla parte dei pacifisti. Come i pacifisti, sono rimasti terribilmente delusi; a differenza dei pacifisti hanno manifestato la propria delusione non con cortei di protesta ma con un’ondata di vendite e con un conseguente ribasso delle quotazioni. Gli sviluppi successivi all’inizio delle ostilità hanno rapidamente cancellato anche la prospettiva di una vittoria facile e indolore; mentre dal punto di vista strettamente militare il controllo della situazione potrà forse essere ripreso dalle forze della coalizione e l’attuale fase di difficoltà potrà essere superata, diventa sempre più difficile sperare in una ripresa rapida dell’economia. Cercando, senza successo, una vittoria lampo e senza perdite umane in Iraq, gli americani possono aver subito perdite irreparabili sul fronte dell’economia, che potrebbero anche alterare la natura della globalizzazione. Dopo quelle delle vite umane, sono i danni immateriali rappresentati dai meccanismi economici infranti a destare grave preoccupazione: in sole due settimane, molti punti fermi dello scenario abituale dell’economia globale sono andati in pezzi. In soli dieci giorni è del tutto svaporata la fiducia in una ripresa in tempi ragionevoli, la stessa stabilità dei flussi commerciali viene posta in discussione. E intanto, con il boicottaggio di fatto dei prodotti francesi in America e con mille altri segni di ostilità, la cooperazione commerciale internazionale pare appartenere a un passato ormai lontano. Il pericolo più urgente, e purtroppo molto reale, è quello che l’economia americana non riesca a «digerire» l’impressionante costo finanziario della guerra. Sarà ben difficile per gli Stati Uniti, anche nel caso in cui risultino vittoriosi sul campo di battaglia, porre rimedio ai buchi che si sono aperti nel bilancio federale. Dal punto di vista economico, compare qui un fattore di instabilità che è comunque destinato a forti ripercussioni interne e internazionali. Su «chi dovrà pagare il conto» si innesterà gran parte della battaglia politica americana e delle trattative economiche mondiali nei prossimi mesi e forse anche nei prossimi anni.
Il dollaro appare destinato a subire in ogni caso forti cali, del resto già evidenti nella giornata di ieri. Una caduta senza controllo della moneta «leader», però, destabilizzerebbe fatalmente il sistema e probabilmente le altre banche centrali interverrebbero in suo sostegno. Ma così il delicato tessuto delle transazioni finanziarie mondiali potrebbe risultare trasformato e un ritorno a cambi pilotati dall’alto appare, in ogni caso, inevitabile. Una minore libertà nei movimenti finanziari si accompagnerà a prospettive ancora meno brillanti delle attuali per gli investimenti internazionali; sono sicuramente migliaia, in queste ore, le imprese che hanno sospeso le decisioni di investire, in attesa di capire che cosa veramente succederà. E sono decine di milioni le famiglie che stanno sottoponendo a revisione i propri piani di consumo, anche in conseguenza della caduta delle Borse nelle quali avevano investito una parte cospicua dei propri risparmi. I mostri, però, non si limitano all’economia finanziaria e alla situazione congiunturale. Un mostro particolarmente brutto, dai contorni ancora indistinti, è rappresentato dalla minaccia petrolifera. L’estendersi delle manifestazioni antiamericane nel mondo islamico pone una forte pressione su molti paesi produttori per una riduzione o sospensione delle forniture di greggio. L’Arabia Saudita ha già dichiarato che cinquant’anni di amicizia con gli Stati Uniti sono a rischio; un embargo petrolifero non può, a questo punto, essere escluso. Se il prezzo del petrolio andasse alle stelle, i governi non potrebbero stare a guardare. Scatterebbero meccanismi di razionamento e di contenimento dei prezzi che ci riporterebbero all’atmosfera di trent’anni fa, al tempo della guerra del Kippur. Ma sarebbe difficile, in ogni caso, evitare un’ondata inflazionistica proprio nel momento in cui la produzione complessiva rallenta o cade. Gli anglo-americani appaiono non solo impantanati in un Vietnam di sabbia e di kamikaze, il peggiore del peggiore scenario pensabile di qualche giorno addietro, ma immersi in una palude di minacce inflazionistiche e di debiti pubblici crescenti e di indici economici di fiducia calanti. Se si vuol provare a ricostruire qualcosa, bisogna partire da questa amara, ma necessaria, constatazione di una realtà a dire poco scomoda.