La grande industria non abita più qui. Ma senza manifatturiero non si riparte

Se c’è del buono, nei fischi di Mirafiori ai segretari confederali, nell’improvvisa riscoperta delle tute blu, è di avere in qualche modo rimesso al centro del dibattito l’industria. Certo, per adesso ancora in modo un po’ vetero. La mistica del posto e stop, la manifattura come argine alla famelica finanziarizzazione apolide. E tuttavia c’è anche un modo diverso di declinare l’industrialismo, ad esempio descrivendo un possibile “quinto capitalismo” post-fordista, come è capitato mercoledì a Mirafiori. In cui l’industria e il manifatturiero restano centrali ma si meticciano con le autonomie funzionali, il terziario industriale, la ricerca, la conoscenza e i servizi immateriali e finanziari, facendo sistema.Un post-fordismo diffuso, che ci racconta di territori in competizione sull’asse Genova-Torino-Milano-Venezia e di riconversioni industriali di aree dismessecome metafora per descrivere un nuovo nord. Ben oltre il vecchio Mi-To dei primi anni Ottanta in cui contavano esclusivamente le due città di Milano e Torino in una tematizzazione esclusivamente urbana di uscita dalla crisi dei Settanta, mentre i territori non entravano mai nella rappresentazione, se non per indicare i collegamenti su cui le due città si scambiavano merci e persone.
Naturalmente non sappiamo ancora se queste tracce di neocapitalismo rimarranno sfuse, disarticolate, oppure si trasformeranno davvero in un nuovo paradigma di sviluppo del nord. Quel che si può fare ora è analizzare, ad esempio, le crisi industriali sul campo e vedere come ci si è attrezzati per uscirci, cavando qualche modello emulativo. Un approccio, questo, utilizzato dall’assessorato al Lavoro della Provincia di Milano guidato da Bruno Casati che ha appena prodotto un bel paper sulle crisi industriali e occupazionali nella provincia di Milano nel biennio 2004-2006. Si tratta di un librone voluminoso che mescola l’elenco delle aziende in sofferenza, case history aziendali, report sul campo, gli accordi e i protocolli sottoscritti dalla Provincia, gli interventi del consiglio provinciale sulle crisi delle singole imprese e sull’emergenza occupazionale, fino alla proposta finale di un distretto dell’hi-tech nell’est Brianza. Ma soprattutto, il volume è una straordinaria istantanea dal basso sul paesaggio industriale milanese (loro la chiamano Milanometropoli) all’inizio del terzo millennio, sulla fuga e/o la scomparsa della grande industria, il ruolo delle multinazionali, e la ripartenza delle medie aziende esportatrici. Cosa se ne ricava? Intanto va detto che nel biennio preso ad esame praticamente tutti i settori e tutte le dimensioni d’impresa sono stati colpiti.
«Abbiamo visto andare in crisi le realtà che competevano solo sul prezzo e non hanno retto alla massa d’urto delle importazioni da est, specie nel tessile-abbigliamento-calzaturiero, vedasi l’ultimo Caso clamoroso della Zucchi Bassetti», si legge nel papep. «Così come abbiamo visto andare in crisi anche le realtà che competevano nel mercato globalizzato sulla qualità. Ma in questi casi la crisi era dovuta alle giravolte strategiche di quelle proprietà estere che negli anni passati avevano fatto shopping industriale nei comparti milanesi d’avanguardia come avviene in Abb, Getronics, Bull, Cooper Cameron, Celestica, De Nora, e che a breve potrebbero venir seguiti da Alcatel». Tuttavia, si legge, «abbiamo colto anche le tendenze di reazione di quegli imprenditori che dopo il 2001, quando il declino rischiava di diventare dissesto, hanno stretto i denti investendo sulla qualità, sul marketing, sulla filiera dei fornitori e sull’innovazione di prodotto.
Chi lo ha fatto ha tenuto botta anche nei settori più esposti come il tessile, è il caso virtuoso della Candiani di Robecchetto. Oppure della mitica Mivar di Abbiategrasso, che fa da sempre televisori e in cui si è riusciti a innovare. O ancora della Tamini che a Legnano e a Melegnano sta diventando la fabbrica italiana leader nella produzione di quei trasformatori che Abb ha invece deciso di trasferire dall’Italia Oltralpe».
Nel concreto, il paper riporta anche i primi casi di successo nelle reindustrializzazioni di grandi siti dismessi. È il caso della Celestica di Vunercate, 850 lavoratori su 300 mila mq di area o, appunto, dell’ Abb di Legnano, 250 lavoratori che la popolano. Due casi paradigmatici del milanese, che in negativo raccontano di un disimpegno da questo territorio di alcuni presidi multinazionali, segno che il milanese di per sé non è più garanzia di attrattività. Ma in positivo, invece, raccontano che chi abbandona l’area non si limita a fare operazioni immobiliari (come Fiat su Arese e Falck a Sesto), ma si propone di trovare direttamente nuovi investitori che in quei territori gettano la base di futuri poli tecnologici. A Vimercate dell’hi-tech (sul comprensorio già lavorano ST Microelectrics, Ibm e Alcatel); a Legnano dell’energia (opera giàla ex Tosi, Tamini, da potenziare, e altri che possono essere attratti in un distretto qualora si sbloccasse in positivo l’operazione con Abb). Il che ci restituisce un paesaggio ambivalente, a doppia lettura: «Milano non è più, Milano non è ancora», come sloganizza il volume. Milano non è più il baricentro dell’antico triangolo industriale del nordovest (elettromeccanica, siderurgica, cantieri navali, auto) che si è ridotta pesantemente. Ma Milano non è ancora il baricentro di un nuovo triangolo, pur disponendo delle condizioni per ridiventarlo. Essendo nodo di rete perfetto, crocevia tra i due grandi assi geopolitici sud/nord e est/ovest, dove interagiscono grandi multiutility, sette università, reti logistiche e della conoscenza, piattaforme espositive, la Camera di Commercio, le banche, i grandi fondi e le fondazioni. Ed essendo già la città della moda e del designo.
Perché allora la metropoli non è ancora tornata a ricoprire il ruolo di capitale che le compete? Perché non attrae come dovrebbe e anzi perde funzioni (è il caso della multinazionale della chimica e del food Unilever, che accorperà la sua base italiana a Roma, rischiando di lasciare a casa 650 dipendenti nel solo milanese, ma anche della partenza di Ericsson, Siemens e Getronic solo parzialmente compensate dall’acquisto di aziende italiane sul territorio da parte di Lactis e Sab Miller)?
In questo senso, il paper individua soprattutto un limite, oltre alle croniche difficoltàdi accesso al credito: il non voler riconoscere l’errore che si è compiuto in questi anni lasciando dilapidare il patrimonio di quel che c’era di grande industria. Nell’illusione che si potesse fare senza manifattura. Una specie di economia light. Cosa che né Germania né Francia hanno fatto. «Quindi bisogna riprovarsi almeno a ricomporre filiere, specializzarle, qualificarle», incentivando la creazione di nuovi poli industriali ad altissima tecnologia nelle aree dismesse, cioè luoghi di connessione tra università, imprese, start-up e vecchio presidio manifatturiero. Soprattutto a partire da Milano dove gran parte di quell’industria era situata perché solo un manifatturiero forte può esprimere un grande terziario, «altrimenti si rischia di diventare un paese di contoterzisti e subfornitori, magari con produzioni di nicchia eccellenti ma in un solo punto della filiera». Già. Anche questo, dopo Mirafiori, in fondo è post-fordismo.