La grande differenza tra aggressione e difesa

Questa discussione sulla violenza e la politica mi sembra intrecci due questioni che forse conviene tenere distinte. Si parla di storia (della storia dei comunisti e del movimento operaio) e ci si interroga su quale sia oggi la pratica politica più appropriata al conflitto anticapitalistico. Mi rendo conto che analisi del presente e idea del passato si influenzino a vicenda. Ma non è detto che il discorso si giovi della loro indistinzione. La storia. Mario Tronti ha posto una premessa che pare anche a me fondamentale: «L’età delle guerre civili mondiali, con dentro il fascismo e il nazismo, non l’ha voluta il movimento operaio: è storia moderna, capitalistica, del Novecento, con cui, in qualche modo, i conti bisognava farli». O si parte da qui, o è inevitabile approdare a conclusioni paradossali, nelle quali i ruoli si rovesciano e le responsabilità si confondono. Questo significa non vedere la violenza che ha segnato le risposte alla violenza del dominante? Niente affatto. E non significa nemmeno rifiutarsi di discuterne, di interrogarsi sugli eccessi e persino sui crimini. Significa non perdere di vista l’enorme differenza tra aggressione e difesa, che non coinvolge esclusivamente il piano morale o giuridico, ma illumina anche la ricerca storica sulla cultura e l’antropologia del movimento operaio, non da oggi sul banco degli imputati. Io sono convinto che la violenza – l’uso delle armi, l’esperienza della guerra, l’esercizio della coercizione – sia estranea alla concezione del mondo dei comunisti e di quanti avversano il capitalismo per la sua carica distruttiva e per la sua costitutiva iniquità. A Venezia, nel convegno sulle foibe che è all’origine di questo dibattito, Bertinotti ha ricordato l’orrore provato da Luigi Pintor nel prendere le armi contro i fascisti. Appunto. Penso che Pintor incarnasse in quel momento l’ethos più autentico della lotta partigiana. Certo, il famigerato Novecento suole essere prodotto a confutazione di questo convincimento. Ma si commettono, così argomentando, errori che non diventano ragioni per il solo fatto di essere molto à la page anche presso gran parte della sinistra «critica».

Il gulag e le purghe – per chiamare subito in causa gli scheletri più ingombranti – non furono il frutto naturale dell’Ottobre (che con poco senso delle proporzioni si provvede oggi a dichiarare morto e sepolto), né della pianificazione e della modernizzazione a tappe forzate. Derivarono dal trionfo dell’arbitrio e dalla paranoia del potere dispotico. Che a loro volta non intrattengono alcun rapporto privilegiato con la socializzazione dei grandi mezzi di produzione. Che discendono dalla fragilità o inconsistenza dell’elemento statuale (travolto appunto dall’urto dei poteri di fatto) piuttosto che dalla sua presunta ipertrofia (come in tempi di egemonia liberista si ribadisce). Riguardo a tutta questa questione dello stalinismo è giunto il momento – mi sembra – di abbandonare un impacciato silenzio. Non è vero che si tentenni nella critica, non è vero che si indulga a giustificazionismi. È vero piuttosto che spesso e volentieri ci si serve di questa gigantesca questione come di una clava per scopi politici immediati di tutt’altro genere. In obbedienza – verrebbe da dire – alla più classica tradizione stalinista.

Quale conflitto?

Marco Revelli insiste sulla contrapposizione guerresca che ha marcato la cultura politica novecentesca. Non mancano certo documenti di tale impostazione. Se Schmitt legge la politica sullo sfondo della polarità bellica, Gramsci concepisce la lotta contro il fascismo («guerra di posizione nella sua fase decisiva») come un «assedio reciproco» di potenze simmetriche. E non si tratta del solo Novecento. Marx parla della violenza come levatrice della storia, convinto che nessuna classe dominante assista inerme alla fine dei propri privilegi. Ma il punto non è ideologico, concerne la realtà e la struttura materiale del conflitto. Prima di mettere sotto processo le idee, chiediamoci se esse riflettevano i fatti, se ne coglievano o meno aspetti cruciali. Insomma: la guerra c’era, ha dissanguato l’Europa sino alla metà del Novecento (e vi ha riaperto ferite sul finire del secolo: ma su questo tornerò): quali idee del conflitto, dell’avversario, della prassi politica avrebbero potuto o dovuto coltivare i comunisti e quant’altri cercavano di fermare la carneficina e di sradicare il sistema di potere che l’aveva causata?

E non si tratta solo di guerra in senso stretto. Forse ce ne siamo dimenticati, ma la guerra civile, le stragi, le esecuzioni sommarie di insubordinati e avversari sono state un ingrediente normale nel governo delle società sino in epoche recenti. La Comune viene soppressa in un bagno di sangue nel 1871. Bava Beccaris non appare ai suoi contemporanei un folle assassino. I fascismi ci accompagnano sino alla fine della guerra mondiale e in alcuni casi le sopravvivono ancora per decenni. È una conquista recente l’aver costretto il capitalismo a limitarsi – di norma e nei paesi «avanzati» – alla violenza fredda del mercato, rinunciando a quella calda delle armi. Una conquista preziosa, che ci consente di dire senza incertezze che la lotta politica non violenta è l’unica forma di conflitto praticabile, qui e ora. Ma ieri? Stiamo attenti a non perdere di vista le profonde differenze tra le diverse epoche, tanto più che non possiamo nemmeno escludere che vengano tempi più cupi: cosa faremmo, mi chiedo, se – per dir così – via Tasso tornasse quella che già fu?

Ma soprattutto su un punto bisogna essere netti. Revelli sottolinea la forza d’urto della cultura della guerra, capace – scrive – di determinare la «metamorfosi antropologica» di chiunque impieghi la violenza. Questo non mi pare sostenibile. I comunisti italiani, i partigiani, quanti combatterono armi in pugno i fascisti non sono restati per questo prigionieri di quell’esperienza. La storia del secondo Novecento in questo paese dimostra precisamente il contrario. Negli scorsi decenni la lotta armata è stata una tragedia che ha coinvolto, a sinistra, minoranze di più giovani generazioni. La cultura della guerra ha conservato robuste radici solo a destra, seminando terrore e bombe e stragi rimaste, non per caso, in gran parte impunite.

Detto della storia, si pone il problema della violenza politica oggi. Problema che, per essere utilmente discusso, richiede un preliminare chiarimento. Quali oneri ha il discorso politico? Di che cosa tratta? Io credo che non sia sufficiente indicare aspirazioni e valori, penso si abbia l’obbligo di dire anche come si ritenga concretamente realizzabile un progetto. Non bastano i principi, si è anche responsabili dei risultati delle proprie scelte. Altrimenti si abbandona il terreno della politica, per insediarsi – forse non consapevolmente – nel campo dell’utopia. O della religione.

Quando parliamo di un altro mondo possibile, la parola-chiave è possibile. Una lotta è politica se non coinvolge sogni, ma reali potenzialità. Per questo, affrontando la discussione sulla violenza non ci si può sottrarre, con nobili gesti, alle domande (retoriche) poste da Ingrao (a mio modo di vedere, orientate in senso divergente rispetto all’argomentazione di Bertinotti). Che cosa si fa contro la violenza dell’aggressore? Come si incide sui poteri? Si risponde (quando si risponde): proprio perché assoluta («radicale»), la non-violenza è la contromisura adeguata alla violenza assoluta della guerra globale. Cioè: contro distruttività totale, totale non distruttività; contro guerra preventiva, pace preventiva; contro guerra asimmetrica, strategia asimmetrica dell’«antagonismo».

L’apoteosi della guerra

Lasciamo andare, per il momento, questa storia della «asimmetria» (che oscura l’effettiva portata della strategia statunitense, mirata contro le altre potenze – Cina, Unione europea – ormai prossime a costituire competitori globali). Il punto è: quali ragioni lasciano prevedere che simili eleganti equazioni produrranno gli effetti sperati? Quali analisi concrete, quali piani d’azione? Si dice: il Novecento segnò l’apoteosi della guerra. Bene: quale miglior banco di prova, allora, per misurare l’efficacia di una strategia «antagonistica»? Si dica a quali antecedenti si pensa, su quali esperienze ci si basa. Non pare che i nazisti si arrestassero dinanzi alle braccia levate degli ebrei, né che la loro ferocia abbia dilagato solo dopo che a Varsavia il ghetto insorse. Non risulta che gli Stati uniti abbiano dovuto ritirarsi dal Vietnam perché sopraffatti dalla non-violenza dei vietcong. Che cosa significa, in concreto, che «siamo forti se siamo deboli», come ha detto Bertinotti a Venezia?

Cade qui a proposito il discorso sulla «discontinuità». È invalso lo schema secondo cui «il Novecento è finito» e si tratta ora di un’epoca nuova. Credo si tratti di una impareggiabile sciocchezza. Certo, non tutto è identico a prima. La scomparsa dell’Urss e la fine dell’equilibrio bipolare hanno trasformato in profondità il quadro internazionale. Ma ne hanno modificato gli assetti, non la logica. Nemmeno Negri, se capisco, crede più nell’esistenza dell’ordine unipolare vagheggiato dai neo-cons. E basta leggere un po’ nella profusione di piani strategici sfornati dall’amministrazione Bush e dai think-tanks del Pentagono per capire che il mondo in cui ci troviamo è ancora diviso in aree di influenza contese tra grandi potenze nucleari contrapposte. Robert Kagan non sarà un fine pensatore, come non lo sono i Fukuyama e gli Huntington. Ma vorrà pur dir qualcosa che molte teste d’uovo a Washington scrivano a chiare lettere che la Quarta guerra mondiale è cominciata già negli anni Novanta, nel Golfo e nei Balcani, la Terza essendosi conclusa nel `91 con l’affondamento dell’Unione sovietica. Gli scenari di guerra che costoro tracciano hanno dalla loro almeno un elemento di verità: di là dagli obiettivi contingenti («terroristi» e «Stati canaglia»), la guerra di Bush si rivolge alle minacce mortali che incombono sull’egemonia americana: alla potenza economica (e forse già domani politica) dell’Europa e a quella economica e politica (e forse già oggi militare) cinese. Se questo è, non sarebbe saggio smetterla con le mitologie post-novecentesche?

E non sarebbe anche il caso, visto che discorriamo di violenza e non-violenza, di gettare uno sguardo al di là di quanto accade in quest’angolo di mondo e nelle nostre «tiepide case»? Che cosa intenderebbero dei nostri travagli i palestinesi alle prese con la tortura, la sete, la sopraffazione coloniale? E i colombiani in lotta contro un governo militare alleato al narcotraffico? E Cuba, alla quale ogni giorno gli Stati uniti rammentano che la sua indipendenza suona intollerabile offesa alle orecchie del sovrano? E i resistenti iracheni? Già, i resistenti iracheni. Su questo bisognerebbe discutere tra noi, piuttosto che accontentarci di improvvide semplificazioni. Si parla con insistenza di una «spirale guerra-terrorismo»: ma chi muove guerra e chi è terrorista? E che fine fa, con questo schema, la lotta degli iracheni contro l’occupazione? Ha osservato Raniero La Valle, intervenendo in questa discussione, che «ricomprendere tutte le possibili resistenze nell’unica categoria del terrorismo […] vuol dire non riconoscere più alcuna causa». Non resta che aggiungere una glossa marginale: davvero non vorremmo che anche alla sinistra «critica» càpiti di assumere giudizi o punti di vista propri di chi minaccia di mettere il pianeta a ferro e a fuoco.