La giustizia dei vincitori

Slobodan Milosevic è finalmente morto nella prima «galera globale». Vi era stato rinchiuso nel giugno del 2001, grazie a un blitz della Nato e al forzato consenso del governo di Zoran Djindjic. La consegna dell’ex dittatore all’Aja era stata posta come condizione degli aiuti promessi dall’Occidente per la ricostruzione del paese distrutto dalla guerra «umanitaria» della Nato. Il Tribunale dell’Aja aveva prima incriminato l’ex presidente jugoslavo per crimini di guerra e per crimini contro l’umanità. Poi il procuratore generale Carla del Ponte aveva aggiunto un ulteriore, gravissimo capo d’accusa: il genocidio. Di fatto la Procura si era accanitamente impegnata nel demonizzare la figura di Milosevic come quella del primo – se non addirittura l’unico – responsabile delle tragedie balcaniche e come l’autentico architetto della pulizia etnica. Sarebbe ingenuo negare le responsabilità politiche che Milosevic ha avuto nel sanguinoso processo di smembramento della Federazione jugoslava dopo la scomparsa di Tito. L’estremismo nazionalistico che ispirava il suo regime, la gestione del paese solo apparentemente democratica, in realtà fondata sulla forza militare, la collusione con le organizzazioni illegali. Tutto questo è innegabile – e avrebbe meritato, come disse il premier Kostunica, una commissione di «verità e giustizia» in Serbia come negli altri paesi balcanici. Ma tutto ciò non attenua le gravissime responsabilità di una assise penale internazionale che ha operato in questi anni non al servizio della giustizia internazionale ma alle dipendenze della Nato e in particolare degli Stati Uniti, gli stessi che hanno fatto a pezzi la giustizia internazionale. La procura generale, sotto la direzione di Louise Arbour, prima, e poi di Carla del Ponte, non ha offerto garanzie d’imparzialità nel giudicare gli imputati serbi, né alcuna autonomia verso le aspettative dei committenti politici e finanziari del Tribunale.

E’ sufficiente ricordare che sin dal 1993 gli Stati Uniti sono stati e sono attualmente i finanziatori quasi esclusivi del Tribunale, in aperta violazione dello Statuto del Tribunale. E basta considerare che la Procura del Tribunale ha stabilito rapporti di sistematica collaborazione con i vertici dell’Alleanza Atlantica. E’ accaduto sia prima che dopo la «guerra umanitaria» sferrata dalla Nato contro la Repubblica Jugoslava. In pratica i reparti della Nato hanno sistematicamente operato come forza di polizia giudiziaria a favore della Procura del Tribunale, ricevendone segretamente gli atti di incriminazione e provvedendo ad applicarli manu militari , fino ad esaltare le incriminazioni dell’imputato nei giorni dei criminali effetti collaterali dei raid atlantici. Anche l’incriminazione e l’estradizione di Milosevic sarebbe stata impossibile senza la loro collaborazione.

E non può essere sottaciuto che, in cambio della sua preziosa collaborazione, la Nato ha poi ottenuto da Carla Del Ponte l’archiviazione delle denunce formalmente presentate contro le sue autorità politiche e militari da autorevoli giuristi occidentali oltre che da Amnesty International per i gravissimi crimini commessi durante i 78 giorni di ininterrotti bombardamenti. Si è trattato di una archiviazione del tutto irrituale che lo stesso ex presidente del Tribunale dell’Aja, Antonio Cassese, ha severamente criticato. Questa decisione ha offerto la prova decisiva del carattere politico della giurisdizione del Tribunale. Del resto, il giorno successivo all’estradizione di Milosevic, Carla Del Ponte aveva comunicato con orgoglio di aver ricevuto le congratulazioni di Madeleine Albright, da lei affettuosamente chiamata the mother of the Tribunal, la «madrina del Tribunale».

Il ruolo che i vincitori hanno assegnato a Milosevic è stato quello del capro espiatorio. La stigmatizzazione e la degradazione morale del nemico sconfitto in vista del suo annientamento come vittima sacrificale – ci ha insegnato Réné Girard – ha un effetto redentivo, diffonde sentimenti di sicurezza e circonda i vincitori di una aureola di trascendente innocenza e moralità. Tutto questo non dovrebbe avere nulla a che fare con le funzioni di una giurisdizione internazionale. E non ha nulla in comune con una politica di pacificazione e di riscatto dei paesi balcanici e di rinascita della Serbia, il paese più gravemente devastato dalla Nato nel 1999 e ora con il maggior numero di profughi.

Del resto quella «guerra umanitaria» non ha mai arrestato la violenza. Come ogni altra guerra, la guerra del Kosovo – dove ora è premier il mai incriminato Agim Ceku – ha lasciato una lunga scia di odio, di paura, di corruzione, di miseria e di morte. La protezione dei diritti dei cittadini kosovaro-albanesi non era l’obiettivo reale della Nato, come non lo era l’arresto della «pulizia etnica». Essa è continuata spietatamente, contro i serbi sconfitti.

Oggi la scomparsa di Milosevic, lungi dall’aprire la strada alla rinascita e alla democrazia a Belgrado – una tesi sostenuta ieri da Javier Solana, uno dei massimi responsabili della tragedia balcanica -, può far precipitare la situazione. Non è improbabile che l’Occidente colga l’occasione per dare la spinta definitiva al processo di separazione del Kosovo (e poi del Montenegro). Verso il definitivo collasso di quel che rimane.