La posizione della mozione 2 chiede di valorizzare il grande patrimonio di idee e di analisi scientifiche che nel corso degli ultimi 150 anni hanno conferito rigore ed efficacia all’analisi di classe, alla critica del capitalismo e alla pratica rivoluzionaria del movimento operaio e comunista, nonché di considerare la storia delle rivoluzioni socialiste e dei movimenti anticoloniali e antimperialisti del ‘900 – a partire dall’ottobre sovietico – un’eredità da assumere con rigore critico, ma senza rimozioni né demonizzazioni (funzionali a un forsennato revisionismo storico. Si vedano i recenti durissimi attacchi alla lotta partigiana jugoslava con lo stravolgimento della vicenda delle foibe, o la richiesta di alcuni deputati europei di mettere al bando il simbolo della falce e martello). Alcuni compagni della “mozione 1” replicano che il partito non può “trasformarsi in un circolo culturale”, “bisogna fare politica e non ridursi a una posizione testimoniale”, sottintendendo nient’altro che entrare nelle istituzioni per utilizzare le leve del potere pubblico. La ricchissima elaborazione e pratica politica comunista del ‘900 alla quale facciamo riferimento – Lenin e Gramsci – non si è mai limitata alla sola battaglia delle idee, ha sempre combattuto le posizioni settarie e quelle puramente testimoniali, ha sempre concepito l’agire politico come pratica che, sulla base dell’analisi concreta della situazione concreta, ha mirato a modificare, attraverso la mobilitazione delle masse e una politica delle alleanze, i rapporti di forza tra le classi e le formazioni politiche che le esprimono, in vista dell’obiettivo strategico della trasformazione dei rapporti di proprietà, dei rapporti sociali di produzione. I nostri maestri, anche nelle condizioni politiche più drammatiche e difficili hanno sempre profuso sforzi enormi per affermare l’importanza strategica della lotta teorica e dotare il partito di strumenti per la formazione culturale-politica dei militanti. Non è per il gusto astratto della teoria, della storia, che insistiamo sulla questione della formazione teorica, che purtroppo non ha mai avuto spazio adeguato e una organizzazione sistematica nel Prc. Per i comunisti la formazione ideologico-politica, la conoscenza critica della propria storia, non può essere un optional, che ci si concede nei luoghi e nei tempi in cui non si è impegnati nella “politica”. E’ parte integrante dell’essere e dell’agire da comunisti nel lavoro quotidiano. I comunisti nascono non semplicemente come il partito dell’opposizione sociale, non come sindacato che contratta migliori condizioni salariali e di, ma come partito. Per rovesciare i rapporti borghesi e dar vita alla società dei “produttori associati”. C’è un grande rischio nella posizione di chi ritiene secondaria la battaglia delle idee del rapporto con l’esperienza storica dei comunisti. Il rischio di perdere non solo la propria identità che si costruisce quotidianamente nella dialettica dello scontro di classe e di non avere un fine cui tendere. Il rischio di tornare alle posizioni del revisionismo di Bernstein, per cui il fine è nulla e il movimento è tutto. Il rischio di perdersi in un’azione tattica e politicistica, accodandosi in modo subalterno alle posizioni dell’avversario di classe, dimenticando le ragioni per cui ci chiamiamo e siamo comunisti. Siamo oggi la forza più seriamente impegnata nella lotta, acuitasi, per sconfiggere il governo Berlusconi e le politiche della destra. Questa azione ha bisogno di un partito comunista attrezzato, radicato nei luoghi della produzione e del conflitto sociale, nel territorio, composto di compagni consapevoli e preparati, di soggetti autonomi, forniti di quella “bussola” che l’esperienza storica e la teoria dei comunisti ci hanno consegnato, un partito intellettuale e attore collettivo, non presidenzialistico, fatto di iscritti-elettori-massa che seguono subalternamente il leader o un ristretto gruppo di decisori.