Seguendo una prassi inaugurata con la pubblicazione di Storie di uno scemo di guerra, opera tratta dal quasi omonimo spettacolo che Ascanio Celestini aveva presentato in anteprima in occasione della Biennale di Venezia del 2004, esce oggi il secondo romanzo dell’attore romano, La pecora nera (Einaudi, pp. 94, Euro 11,50), derivato dalla pièce che ha debuttato a Perugia nell’ottobre dell’anno passato. A differenza del primo racconto, strutturato su di un plot “ad intreccio” con sistematiche divagazioni e digressioni che solo nell’epilogo conclusivo trovavano uno scioglimento organico, La pecora nera rievoca in modo lineare ed evoluzionistico – tuttavia non senza un coup de théâtre finale, secondo il meccanismo classico dell’agnizione – le vicende del protagonista-narratore (e del suo presunto amico Nicola), dall’infanzia trascorsa durante i “favolosi anni Sessanta” fino alla più che trentennale reclusione all’interno dell’istituzione manicomiale. Si tratta per la verità di un resoconto postumo («Io sono morto quest’anno», ripete ossessivamente la voce narrante nel corso dell’intero romanzo), e quindi di una narrazione sostanzialmente analettica che procede per mezzo di una successione di sintetici flashback: i singoli paragrafi in cui è scandito il racconto – come in uno stationendrama – rievocano ciascuno una tappa del percorso esperienziale del protagonista (e del suo “doppio” Nicola) e di quanto di esso è rimasto impresso nella di lui memoria post-mortem. In questo senso, abbandonato quel contesto storico-geografico mitico in cui aveva collocato i suoi precedenti lavori (la periferia romana negli anni del secondo conflitto mondiale) ed ambientata la narrazione in una attualissima contemporaneità, La pecora nera apre una nuova fase nella produzione di Celestini, alla quale si può anche ascrivere il suo più recente spettacolo, Appunti per un film sulla lotta di classe, presentato in prima nazionale al Piccolo di Milano lo scorso maggio. Si tratta infatti di un romanzo che svela e denuncia la desolante miseria morale del presente, in cui il mito del benessere fisico-materiale assume i tratti chimerici di un “appagamento” fittizio, allo stesso modo in cui l’Io narrante insegue il proprio alter ego, proiezione ideale e necessaria di un povero schizofrenico.
Coerentemente con un personale metodo di lavoro ormai consolidato nel tempo, Celestini ha fatto precedere – alla fase della scrittura vera e propria – un periodo di ricerca “sul campo” di matrice antropologica: per anni l’attautore ha raccolto le testimonianze orali di chi si è trovato a vivere l’esperienza del manicomio (medici, pazienti, ma soprattutto infermieri) ed ha poi intessuto tutto questo materiale documentario in una fabula unitaria. Così – chiarisce lo stesso Celestini nel risvolto di copertina – l’oggettività dei fatti esposti è subordinata alla concretezza dello sguardo e delle percezioni soggettive di chi è stato protagonista delle vicende indagate e narrate. Ne deriva una storia improntata ai canoni di un “neorealismo magico” in cui l’irruzione dell’elemento fantastico all’interno di un contesto sostanzialmente verista, non risulta sorprendente né tanto meno perturbante, come se lo statuto ontologico del mondo d’invenzione elaborato dall’attautore contemplasse l’illogico, l’assurdo, l’impossibile. Ne deriva anche quella mésalliance di tragico e comico che costituisce una costante della poetica di Celestini, come si nota in modo esemplare nel prologo che apre il racconto ed in cui l’attautore ripercorre gli eventi più significativi degli ultimi quarant’anni: dai lutti degli attentati a New York, Londra e Madrid (ma anche a Kabul e Baghdad) all’invenzione del tetrapak, alla moda delle “fragole con l’aceto”, alla commercializzazione dell’ovetto Kinder “che trasforma tutti i giorni dell’anno in una Pasqua infinita”.
Come già con lo spettacolo Fabbrica, Celestini è tornato ora ad investigare il rapporto tra l’individuo e l’istituzione – totalizzante, come appunto il manicomio – mostrando come questa persegua sistematicamente una standardizzazione massificante dell’identità personale e l’imposizione di un modello culturale unico: è su questo fondamento “politico” che l’attautore istituisce un parallelismo tra l’istituto psichiatrico ed il supermercato dove l’Io narrante si reca a fare la spesa, accompagnato da una suora e dall’inseparabile Nicola, e che Celestini assume a paradigma archetipico dell’attuale società dei consumi. In fondo il direttore dell’istituto e del supermercato sono la medesima persona (“l’istituto, il supermercato e il regno dei cieli sono tutta un’azienda e io sono il padrone”); d’altra parte, tanto nel manicomio quanto nel megastore le luci restano sempre accese, di giorno e di notte, a scandire un tempo artificiale ed indipendente dai bioritmi della Natura. Anzi, sembrerebbe quasi che l’uomo contemporaneo abbia perso qualsiasi contatto con il reale, nella tragicomica ricerca dei falsi idoli pubblicizzati dai media.
Un romanzo, quello di Celestini, che trova espressione in una lingua “oralizzante”, cioè in grado di conservare gli elementi lessicali e sintattici del parlato e del gergale romanesco, o meglio pan-laziale. Si pensi alla ripetizione di formule (l’iterazione di epiteti e frasi-eco, nell’economia della comunicazione non-scritta e pertanto tendenzialmente improvvisata, permettono al fabulatore di prendersi il tempo per pensare a che cosa dire, senza interrompere la narrazione in corso), alle relative costruite con il “che” indeclinato (“il cappello a cilindro che Pancotti Maurizio ci tira fuori un piccione”), ai dimostrativi e gli articoli indeterminativi accorciati (“’sto”, “’na”), all’uso del maschile al posto del femminile (“gli” per “le”), ai dialettismi (“recchia”, “zelloso”, “mozzico”), ecc. Ma forse il valore specificamente letterario dell’opera di Celestini consiste proprio in questa capacità di immettere e mantenere nella scrittura i tratti e gli elementi della comunicazione orale e, di conseguenza, la freschezza e la spontaneità del parlato, elaborando un idioma comunicativo al contempo equidistante dal classicismo della letteratura aulica e dal naturalismo mimetico di certo neorealismo di maniera, ma anche dall’espressionismo di quella che Contini definiva come la “linea Folengo-Gadda”.