La «flexicurity» Ue per scardinare il lavoro

Giusto per schiarirsi le idee. Il primo seminario organizzato – nella sede del Cnel – dal ministero del lavoro «sui temi europei» impatta da subito la flexicurity, ossimoro usato per indicare due «necessità» contrapposte: «flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro». Contrapposte nella logica, nei fatti e nelle proposte in campo, nonostante i (numerosi e infruttuosi) tentativi di conciliazione.
Anche perché in sede europea, lì dove vengono elaborate le «direttive», le lobby lavorano alla grande – non è un’insinuazione; lo ha ammesso, ammirato, il rappresentante di Confindustria, Massimo Marchetti – e quel che ne viene fuori è roba indigeribile anche per diversi esperti chiamati ad analizzare il «Libro Verde», il testo della Commissione che cerca di indicare la via per «armonizzare» le diverse legislazioni del lavoro esistenti nei 25 paesi.
La versione ora in circolazione è peggiorativa della precedente, già preoccupante, fin dal titolo: la «flessibilità congiunta alla sicurezza» è svaporata nella «modernizzazione del diritto del lavoro». Ma quello che più ha scandalizzato, secondo l’europarlamentare Donata Gottardi, è proprio l’«assunto di base». Visto che «esistono numerosi tentativi di creare flessibilità ‘ai margini’» del mercato del lavoro (con contratti «atipici» di ogni tipo), nel testo europeo si propone di «intervenire sul diritto del lavoro ordinario, proponendo di riaprire la discussione sulla libertà in uscita, magari scambiandola con la libertà in entrata». In pratica: per eliminare le differenze esistenti tra i diritti dei diversi tipi di lavoratori basta ridurre quelli dei «garantiti» fin quasi a farli coincidere con quelli dei precari; magari concedendo alle imprese maggiore libertà di licenziare in cambio di una corrispondente libertà di assumere (ma chi mai trattiene le imprese dal farlo?). Un «livellamento verso il basso» che fa coincidere la «modernizzazione con il ritorno al passato» (spiega anche Mauro Guzzonato, della Cgil).
Sta di fatto che quando c’è da «conciliare competitività e modello sociale europeo» la discussione prende sempre e soltanto una piega: via il «modello sociale» e avanti con la «libertà dell’impresa».
L’idea di fondo della flexicurity si presenta con l’aspetto della ragionevolezza: una «strategia sincronica per accrescere la flessibilità del mercato, dell’organizzazione e dei diritto del lavoro per accrescere anche a sicurezza del reddito, specie dei più deboli». Ma l’obiettivo viene spostato di forza dalla «difesa del posto di lavoro» alla «difesa dell’occupazione». Flessibile, naturalmente, in modo da favorire la trasmigrazione da un lavoro all’altro nel corso dell’intera vita. A soccorso vengono pensate «politiche attive» su formazione, ammortizzatori sociali, persino forme si reddito di disoccupazione nei momenti di «trasmigrazione»; ma soprattutto «contratti flesibili» su organizzazione, orari, qualità della prestazione.
La flexicurity, ci mancherebbe, non viene intesa come «una ricetta, ma come un obiettivo», che lascia liberi i governi nazionali di sperimentare i mix di misure più adeguati al contesto dei loro paesi. E infatti nell’Est europeo «proliferano i contrati individuali», dove il dipendente resta solo e nudo davanti al «padrone».
Resta l’impressione che forze gigantesche – quanto a interessi, istituzioni, intelligenze impegnate – stiano muovendo contro il mondo del lavoro così come si è configurato nel dopoguerra in Europa. Ma che da quest’altra parte non si sia ancora avuta la percezione della dimensione dell’attacco. Governi e sindacati muovono perciò alla ricerca di politiche in grado di «temperare» l’erosione dei diritti, per evitare la conseguente disgregazione sociale. Ma il massimo che hanno fin qui partorito è, appunto, la flexicurity. Un insieme di «buone pratiche» che non riescono a diventare «norma europea», ma che – nel percorso dall’idea alle proposte di legge – perde regolarmente gli aspetti di «sicurezza sociale» a vantaggio di quelle della «flessibilità». Chissà chi è a guadagnarci…