La flessibilità buona non c’è. Lo dicono i dati del ministero

Il ministero del lavoro ha diffuso ieri i dati su «occupazione e forme di lavoro precario». Lo ha fatto mettendo insieme i dati Istat e quelli Inps, con il dichiarato obiettivo di «chiarire le dimensioni del fenomeno al fine di disegnare politiche di intervento adeguate». I dati dicono che la dimensione del lavoro a termine nel paese – considerando i dipendenti con contratto temporaneo, compresi interinali, stagionali, contratti di inserimento e a chiamata, oltre ai lavoratori con contratto co.co.co. e i prestatori d’opera occasionale – non è superiore a quella europea, pur se in crescita. Ma dicono, soprattutto, della difficolta del passaggio tra lavoro temporaneo e lavoro permanente. Se dunque, come dice Damiano, si può parlare di «buona flessibilità» quando la permanenza nel lavoro a termine non è in termini di tempo troppo lunga, non si può certo dire che sia questo il caso italiano.
I numeri dicono infatti che negli ultimi anni è aumentata la percentuale di permanenza nel lavoro temporaneo. Dopo 36 mesi, soltanto un lavoratore su tre è passato a tempo indeterminato, e un lavoratorte su quattro è ancora apprendista. Il ministro Damiano difende naturalmente il protocollo di luglio, ora disegno di legge collegato alla finanziaria – dove la norma di un solo rinnovo possibile dopo 36 mesi tra proroghe e rinnovi, è stata sostanzialmente messa in mora dai divieti di Confindu-stria. Punta il dito piuttosto sull’«abuso» dei contratti di apprendistato (oggi rinnovabili fino a sei anni, un tempo che Damiano giudica «eccessivo») sui quali annuncia un tavolo con le regioni e le parti sociali, così come previsto sempre dal disegno di legge che recepisce gli accordi di luglio. Frasi che, appena pronunciate, hanno scatenato la reazione di Confindustria: «Guardiamo con preoccupazione e perplessità all’idea del governo di intervenire con norme di legge in una materia affidata al dialogo tra le parti – dice Maurizio Beretta, direttore generale di Confindustria – E’ una pratica che non condividiamo».
Secondo il ministero del lavoro, il lavoro a termine coinvolge 2,7 milioni di persone (TI 1,8%-del totale degli occupati), di cui 2,2 milioni sono costituiti dai contratti a tempo determinato (interinali, stagionali, contratti di inserimento e a chiamata inclusi), 404 mila collaborazioni coordinate e continuative, e 393 mila prestatori d’opera occasionale. Numeri che, da una parte, rischiano una sottovalutazione, non tenedo in conto la sacca di precarietà che si nasconde dietro al lavoro autonomo (finte partite Iva e così via), dall’altra, ha sottolineato lo stesso ministro, non considerano un fenomeno tangenziale a quello della precarietà, quello cioè del lavoro nero. Che Damiano quantifica in altre 3,5 milioni di persone. Dice ancora il rapporto, che tra i lavoratori a termine (che comunque riguardano più le donne degli uomini) è più alta rispetto alla media la percentuale di occupati part rime (il 23% tra i dipendenti a termine, il 39% tra i collaboratori, il 63% tra i prestatori d’opera occasionale, contro il 13% degli occupati complessivi), tanto che nove dipendenti a termine su dieci dichiarano di avere accettato il lavoro a termine, perchè non hanno trovato di meglio. Infine, il caso dell’apprendistato che, al 2006, coinvolgeva 589 mila persone. Un contratto che oggi può durare fino a sei anni, per cui lo Stato ha speso nel 2006 (come incentivi) 2,4 miliardi di euro, di cui però le imprese abusano, a quanto dicono i dati del ministero. Arrivando ad utilizzarlo come «flessibilità» per i mesi di lavoro estivi.