La filiera della pace

Non è solo la cooperazione allo sviluppo a essere in stato di sofferenza negli ultimi anni. Il nostro paese è rimasto drammaticamente fermo mentre altrove – in Europa e nel mondo – si è fatta strada una nuova consapevolezza delle possibilità aperte per una politica estera coerentemente orientata alla pace. Si tratta di costruire un indirizzo politico coerente e attrezzarsi con gli strumenti appropriati per realizzare, nei conflitti concreti, una politica di pace dell’Italia a livello internazionale. Non basta volere il rimpatrio del contingente italiano in Iraq, e non sono sufficienti gli appelli per una trasformazione in senso democratico delle Nazioni unite.
C’è bisogno di un salto di qualità in quello che il nostro paese fa in risposta ai conflitti che lacerano società e paesi in molte parti del mondo; della costruzione paziente di nuovi modi di intervento civile e nonviolento in questi conflitti, anche imparando dalle esperienze più avanzate dei nostri vicini europei; di saldare gli sforzi in diversi campi in una «infrastruttura» per la pace coerente e riconoscibile agli occhi dell’opinione pubblica.
Anche lasciando da parte l’appiattimento sulle posizioni belliciste dell’amministrazione Bush, i cinque anni di governo del centro-destra hanno mostrato una quasi completa mancanza di attenzione sui temi della pace e della prevenzione dei conflitti violenti. Ne è stata una riprova l’assenza di iniziative di rilievo in occasione del semestre di presidenza italiano dell’Unione europea. E’ interessante leggere sul tema il programma dell’Unione. La coalizione di centro-sinistra incentra la sua attenzione quasi esclusivamente su quello che l’Europa potrà fare: coinvolgimento «nella prevenzione e nella gestione delle crisi» (purtroppo senza precisare se si pensa di favorire strumenti civili o militari di gestione di tali crisi) , e soprattutto costituzione di un corpo civile di pace (i cosiddetti caschi bianchi), in grado di intervenire nelle aree di sofferenza e conflitto con gli strumenti del dialogo, dell’interposizione nonviolenta, della diplomazia e della mediazione.
Dal punto di vista di una politica di pace, si tratta di una scelta sacrosanta. C’è bisogno però anche di qualcos’altro, cioè di un impegno preciso del futuro governo italiano a percorrere la strada di un diverso modo di fare politica estera. Anzitutto non possiamo aspettare che sia tutta l’Unione europea a muoversi in questo senso, e in secondo luogo perché ci sono un gran numero di atti concreti che sono gli stati membri a potere e dovere realizzare. Di seguito proviamo a formulare alcune possibili tappe di un percorso che vada in questa direzione.
1. Occorre un referente politico (ad esempio un vice-ministro degli Esteri) e una struttura riconoscibile e trasparente incaricata di seguire in maniera continuativa le iniziative politiche di prevenzione dei conflitti violenti, di gestione civile delle crisi e di mediazione di pace
. 2. Il nuovo governo dovrà costruire una vera e propria «filiera» della pace, impegnandosi in maniera coerente per politiche di prevenzione e soluzioni civili dei conflitti in tutti i principali ambiti di politica estera: dall’Unione europea all’Osce, all’Onu, dalla cooperazione allo sviluppo, alle politiche commerciali, fino ad arrivare al settore cruciale del commercio di armi. Su quest’ultimo bisogna tornare allo spirito della legge 185 del 1990.
3. C’è bisogno di un Istituto nazionale di ricerca sulla pace e i conflitti, sul modello degli istituti dei paesi del nord Europa (come il Sipri svedese). In Italia la peace research è ancora poco sviluppata con poche iniziative e pochissimi finanziamenti disponibili. In parallelo vanno rilanciati i corsi di laurea, di dottorato e i corsi professionalizzanti che prepareranno una nuova generazione di operatori di pace in grado di intervenire nei conflitti.
4. Vanno messe in cantiere iniziative politiche forti, istituzionali e della società civile, per prevenire possibili escalation in zone «a rischio», e per sostenere in modo incisivo negoziati e processi di pace già in atto. Il sostegno può (e deve) essere sostenuto sia al livello della diplomazia ufficiale, sia con gli strumenti e le modalità della diplomazia popolare, il cui potenziale per la costruzione della pace va valorizzato appieno. Due situazioni per tutte: il Kosovo, territorio che ha visto l’impegno della società civile italiana per una soluzione nonviolenta del conflitto fin dal 1993, e il Congo, in cui le elezioni potrebbero aprire un periodo di transizione verso la pace.
5. Il nuovo governo dovrà realizzare subito i proposti corpi civili di pace. In Italia la società civile ha più volte sperimentato questo strumento di intervento nonviolento in zone di conflitto: in passato in paesi come la Colombia o il Kosovo, Paesi come la Germania hanno già realizzato un vero e proprio Servizio civile di pace, con centinaia di progetti all’attivo. L’Italia ha già uno strumento legislativo adeguato a questo compito, il servizio civile volontario. Nella legge di riforma del servizio civile si menzionava che i volontari avrebbero effettuato una sperimentazione di «forme di difesa non armata e nonviolenta». A tale scopo è nato un Comitato consultivo presso l’Ufficio nazionale servizio civile che sta prefigurando in tal modo la costituzione di un corpo civile di pace anche nel nostro paese.
Tutte queste proposte sono in linea di principio realizzabili in tempi molto brevi, e potrebbero fare parte di un programma per i primi cento giorni del nuovo governo.
Nel 2003, in nome della pace, milioni di famiglie italiane hanno esposto dai loro balconi le bandiere arcobaleno: un bacino di potenziali elettori da motivare. La pace non è solo un valore; può (e deve) diventare anche concreta azione politica.
* Pres. Centro studi difesa civile