La festa degli umili di Domenico Rea

Sarebbe diventato matto davvero, don Mimì Rea, se fosse ancora vivo a vedersi celebrato in quel Pantheon della letteratura universale che sono i Meridiani Mondadori: un volume di 1750 pagine che raccoglie tutta la narrativa, il teatro, le poesie, i saggi e gli articoli sparsi, scritti in quasi mezzo secolo, tra il 1947 e il 1994, anno della sua morte. Sarebbe esplosa l’esplosiva sua estroversione, uno dei segni di riconoscimento caratteriali, bene sperimentati da chi lo conosceva. Ebbe grande fortuna agli inizi della sua carriera ma poi parve nascondersi, mettersi in ombra, evitare il coinvolgimento nello stucchevole presenzialismo mediatico. Eppure…
Eppure, quando nel 1947 uscirono i racconti di Spaccanapoli, Domenico Rea fu salutato come uno straordinario talento naturale, il giovane (ventisei anni) scrittore più nuovo, il sangue rinnovato contro l’anemia che ci sembrava di portarci appresso dal ventennio. Penso anche a come la mia generazione lo conobbe, in quel clima e in quella stagione. Era il 1947 e io allora vivevo a Torino, dove Cesare Pavese pubblicava, in quegli anni, Feria d’agosto (’46), Il compagno (’47), Il carcere e La casa sulla collina (’48), La bella estate (’49). E in quel medesimo ’47 Calvino dava alle stampe Il sentiero dei nidi di ragno. Pavese, allora, assieme a Vittorini (di cui, sempre nel ’47, era uscito Il Sempione strizza l’occhio al Frejus) rappresentava il polo magnetico culturale al quale noi giovani ci rivolgevamo, dopo che gli scrittori nati nell’Ottocento ultimo li avevamo momentaneamente accantonati. A Bacchelli, a Bontempelli, a Pea, per fare qualche nome, preferivamo (salvo poi pentircene) la Cronaca familiare di Pratolini, essa pure del ’47 come La romana di Moravia, Artemisia della Banti, i racconti di Paura alla Scala di Buzzati. Anno ricco, nel quale però spiccava il libro di Rea. Per dire che Rea partecipava, quasi a sfida, a una stagione vivacissima della nostra cultura. Aggiungo che in un’Italia ancora difficilmente percorribile e praticamente divisa in nord e sud, lui rappresentava il nuovo meridione, con uno spirito di più genuina soluzione rispetto, che so, a un meglio collaudato Brancati o alla stessa Ortese. Noi si viveva il momento operaistico, specie nella Torino della Fiat e della Einaudi, e quella voce che saliva da Nocera Inferiore, dalla provincia napoletana, ci serviva a riequilibrare tanto neorealismo e tanta America. Spesso con l’errore di volerla intrappolare in quella compagnia.
Adesso, dopo mezzo secolo, il Meridiano mi consente la prova del nove. Corro cioè a rileggermi certi racconti di Spaccanapoli, il primo e l’ultimo per esempio, o di Gesù fate luce che più hanno resistito nella memoria, col doppio risultato di ringiovanire, io, in qualche modo e misura, trovandomi retrocesso in quel tempo (che era pieno di speranze, progetti, illusioni, consuntivi del futuro, tutti smentiti poi ahimé dalla storia), ma in questo dondolare d’anni di rendermi altresì conto degli errori. Rea, infatti, era del tutto estraneo ai problemi «finti» del neorealismo, alla conciliazione di parlato e scritto, a lingua e dialetto, di engagement in un basso-mimetico artificiale o artigianale. Mi rendo conto ora, ricollegandomi all’esperienza che vien giù dalla successiva conoscenza personale di don Mimì, ma che riemerge dalle pagine, che il fondamento e il sostegno di quelle pagine, il suo stile, era verificabile nella sintassi di uno che aveva digerito e assimilato la lezione dei classici. Una scrittura che nella sua semplicità sapeva essere sontuosa. Non voleva mostrarsi popolar-populista ma pretendeva il rispetto per una sua dignità espressiva. Pur mantenendosi e misurandosi in un ambiente come quello napoletano del dopoguerra, con quella miseria e con quelle astuzie di sopravvivenza, con quella spregiudicatezza morale, con quella capacità di inventarsi favole, di farne metamorfosi per esistere. Napoli, insomma, non era Milano o Torino, Verga non era Rovani.
«Narrò l’epopea di quel popolo di derelitti abbagliati dal miraggio di un’improvvisa abbondanza», narrò l’avventura «di un esercito di disgraziati (plebei e piccolo-borghesi, sottoproletari e impiegatucci, pezzenti e anche signori decaduti», «in quell’allegrissima e disperatissima festa degli umili»: citazione dallo straordinario saggio introduttivo di Ruggero Guarini, anche lui alla rincorsa del tempo perduto, della memoria, mettendo assieme, in una sorta di mimetico ricalco intellettuale, l’acume critico e l’affetto per quel tempo, in uno con l’uomo.
È un’utile rilettura, quindi, specie con l’ausilio di Guarini, appunto, e con l’apparato di note e la biografica cronologia di Francesco Durante (una vita non priva di suspense, che lo porta anche in giro per il mondo, a lavorare in Brasile, non priva di depressione e silenzi e pause, prima dell’approdo nella bellissima casa di Posillipo, che mostrava con orgoglio «sociale»), per confermare la convinzione che quanto più resiste all’usura del tempo è proprio il primo Rea, quello che lo svelò e ci sorprese allora, tra Spaccanapoli, Gesù fate luce e Quel che vide Cummeo, i primi due soprattutto. D’accordo, anche i romanzi ci stanno, anche il controverso successo di Una vampata di rossore e l’estrema Ninfa plebea, ma privi ormai della spinta originaria, sorprendente, quella novità che spiazzò noi figli di Pavese. Perché l’Italia, male magari, si riassestava ormai anche nei vizi e pure letterariamente, proponendo parametri alternativi, quando compariva all’orizzonte la neoavanguardia. E don Mimì si trovò fuori dalla bagarre.
Mi sollecita infine un’osservazione in margine (è pure in margine del Meridiano) all’opera del Nostro. Si tratta di una sorpresa, per me, la presenza delle poesie, ma non tanto per il valore in sé delle composizioni quanto per la loro funzione di supporto (ciò vale anche per il teatro delle Formicole rosse). Sono un grimaldello critico per la serratura dello stile, dalle prime, giovanilmente accademiche e scolastiche, spia comunque di un sodalizio e di frequentazioni «classiche» sotto forma di sonetti, a quelle più tarde, scaltramente «moderne». La sintassi di Rea qui viene allo scoperto, geneticamente. Per concludere: in questa prestigiosa collana Rea ci sta bene, pensando a quanto sia difficile scegliere secondo necessità tra gli italiani contemporanei, pur tra intrichi, impedimenti e opportunità editoriali, tra chi urge e chi non può (non sa) aspettare.