Principe azzurro non è mai riuscito a diventarlo, così Lamberto Dini è rimasto «il rospo» e come tale sempre pronto a saltare in gola alla sinistra. Con una spiccata predilezione per Rifondazione comunista. Ieri il senatore della Margherita sembrava aver ritrovato il piglio dei suoi primi anni in politica, dicendo chiaro e tondo all’Unità: «Prodi faccia le riforme, anche contro Rifondazione». Che questo ritrovato interventismo si debba alla serrata corte che gli va facendo Berlusconi, Lambertow è pronto a smentirlo.
Impossibile da smentire, però, è la relazione pericolosa che da undici anni comunque vada tiene insieme, per costrizione, l’uomo del Fondo monetario internazionale e il partito antiglobalizzazione. Che nel 1995 fu l’unico in parlamento a votargli contro quando con la regia di Oscar Luigi Scalfaro nacque il governo «ribaltonista» seguito al naufragio del Berlusconi I. Dovendo finire però, in quello stesso 1995, se non proprio a «baciare il rospo» (come da titolo di prima pagina del manifesto, però con punto interrogativo) certamente e dovergli fare qualche carezza. Ci fu in mezzo una scissione quando, alla prima prova di forza, diciotto parlamentari del Prc decisero di non far cadere Dini per poi fondare i «Comunisti unitari». Niente da fare per Fausto Bertinotti e Armando Cossutta, allora affiatato duo di testa del Prc. Impossibile qualsiasi accordo con Dini anche perché il programma minimo che si era proposto – e che poi realizzò tutto -, dalla manovra economica correttiva alla riforma delle pensioni, dalla legge sulla par condicio a quella elettorale regionale, era agli antipodi della linea di Rifondazione. Segretario e presidente del Prc annunciarono persino il voto favorevole alla mozione di sfiducia del Polo: era l’ottobre del ’95 ed erano pronti ad andare col diavolo pur di cacciare il rospo. Pronti… Lo sfuggente rospo pochi giorni dopo si presentava alla camera prendendo l’impegno di dimettersi a capodanno e i deputati di Rifondazione furono così convinti ad uscire dall’aula al momento del voto, salvando il presidente Dini e concedendogli altri due mesi di vita. Per fare una pesante legge finanziaria, pesante più o meno quanto quella firmata oggi da Padoa Schioppa che Lambertow non vuole difendere perché poco «riformista».
E non finirono col ’95 i problemi tra Dini e il Prc. Anche la «desistenza», la formula magica che consentì la nascita del primo Prodi senza impegnare Rifondazione al governo, stava per saltare, almeno in un collegio quello uninominale della camera di Firenze 2, per colpa del solito «rospo». C’erano già i manifesti nelle sezioni del Prc: «Ma Dini no», e quelli che finirono sui muri delle strade procurarono solenni arrabbiature agli alleati dell’Ulivo, oltre a qualche preoccupazione ai candidati comunisti nei collegi che nel resto d’Italia avevano bisogno del sostegno anche dell’ultimo elettore di «Rinnovamento italiano», il partito che nel frattempo Dini aveva battezzato. Finì che Rifondazione rinunciò a presentare il suo candidato anti-Dini, ripiegando su un meno impegnativo appello agli elettori fiorentini perché non votassero l’ex presidente del Consiglio autore della riforma delle pensioni (guarda caso, la stessa che adesso Prodi dovrebbe «coraggiosamente» correggere proprio secondo Dini).
Naturalmente Lambertow venne eletto senza problemi, e così diventò quel ministro degli esteri del governo Prodi (poi D’Alema) sempre pronto a chiedere un «chiarimento», una «verifica» una «stretta» nei rapporti tra il centrosinistra e il Prc, quando non più esplicitamente un «allargamento» o un «cambio» di maggioranza. Le «larghe intese», insomma. Cioè ancora l’argomento di oggi per il senatore Dini. Per cui ha un bel chiedergli, ieri pomeriggio, Russo Spena del Prc di smetterla con gli attacchi al suo partito. Come chiedere a un rospo di diventare principe.