La fase storica e la necessità del nuovo partito comunista

*Redazione de l’ernesto e Comitato scientifico di Marx XXI
** Comitato centrale PdCI e direttivo Marx XXI

La situazione politica italiana è caratterizzata dalla frammentazione delle forze comuniste e conseguentemente dalla loro inefficacia pratica. Per questo il PdCI e parti importanti del PRC hanno proposto di iniziare un processo di unificazione per la costituzione di un nuovo partito comunista. Il pericolo è, da una parte, che si sottovaluti l’importanza di questo progetto o, dall’altra, che lo si intenda come un semplice assemblaggio dell’esistente. Nel primo caso saremmo condannati chissà per quanto tempo alla inconsistenza politica, nel secondo si rischierebbe di produrre un contenitore che non faccia i conti né con il passato, né con il presente, e che di conseguenza non sia adeguato al futuro.
Il partito per i comunisti non è tattica, bensì strategia. Il partito è strategico, in definitiva, perché il suo scopo esistenziale è la trasformazione della società alla sua radice, nei rapporti di produzione. Proprio sulla necessità e attualità della trasformazione della società in senso socialista è maturata la rottura con la tradizione comunista. Dopo lo scioglimento del PCI, i gruppi dirigenti del PdS-PD finirono per rompere anche con la tradizione socialdemocratica per approdare alla liberaldemocrazia. La lotta di classe divenne così una anticaglia, coerentemente con le conclusioni di Fukuyama sulla “fine della storia”, intesa come storia di lotte di classe. Le conseguenze sono state l’adesione al programma della destra economica, dalle privatizzazioni alla precarizzazione del lavoro, e della destra politica, con la partecipazione a missioni belliche a guida Nato-Usa, dai Balcani all’Afghanistan.
Le sorti “magnifiche e progressive” del capitalismo non si sono però attuate. Quella che appariva con una espansione senza limiti si è rivelata essere la belle époque scintillante ed effimera del ciclo di accumulazione a guida Usa, iniziato dopo la Seconda guerra mondiale ed approdato alla sua fase terminale parassitario-speculativa. Sin dalla crisi “petrolifera” del ’73-’75 si sono ripresentate la classica tendenza alla caduta del saggio di profitto e la sovrapproduzione assoluta di capitale. Le soluzioni sono state l’aumento delle spese statali, specie belliche, e la speculazione finanziaria, che hanno prodotto rigonfiamento del debito pubblico e bolle. Successivamente c’è stato l’attacco al salario diretto e indiretto (welfare state), che ha approfondito il divario tra produzione e mercato capitalistici, e, infine, la ricerca dello sfogo sul mercato mondiale alle eccedenze di merci e capitali del centro capitalistico. Il risultato dei metodi impiegati per risolverle è stato che le crisi si sono riprodotte di volta in volta in forma più approfondita e allargata. La crisi scoppiata nel 2008 con l’esplosione della bolla dei mutui è una crisi generale del modo di produzione, paragonabile per intensità alla crisi del ’29 e alla crisi che ha preceduto la Prima Guerra Mondiale.
Si confermano così non solo le contraddizioni tipiche di questo modo di produzione, individuate da Marx, ma anche il loro approfondimento. C’è, però, un altro fatto ancora più grave. Fino ad ora il capitale era fuoriuscito dalla fase di caos che caratterizzava la fine di ogni ciclo d’accumulazione secolare mediante la sostituzione della potenza declinante con una potenza in ascesa in grado di riorganizzare l’accumulazione su basi rinnovate. Oggi, a fronte della crisi di egemonia dell’imperialismo Usa non appare alcun candidato alternativo credibile. Soprattutto, almeno per il momento, sembra dubbio che, sia per lo strapotere militare Usa sia a causa della presenza delle armi nucleari, avvenga una ridefinizione dei rapporti di forza complessivi coi soliti metodi. Il sistema mondiale appare oggi in una fase di stallo, in cui, però, la conflittualità tra centro ed ex periferia imperialista, tra aree valutarie e all’interno delle aree valutarie si fa endemica, moltiplicando le “guerre per procura”. A queste si aggiungono la distruzione di milioni di vite umane per fame e malattie curabili, una gravissima crisi ecologica, la crisi globale della democrazia.
L’ampiezza della contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione capitalistici, insieme all’enormità della scala mondiale raggiunta dall’accumulazione capitalistica e alla problematicità nel ridefinire i rapporti di forza globali, che mettono a dura prova la riorganizzazione del sistema da parte di una sola potenza, ripropongono la necessità e attualità del comunismo, come riconduzione delle forze della produzione sotto il controllo dei lavoratori associati e come sistema mondiale. Non stiamo dicendo che il comunismo sia dietro l’angolo o automatica conseguenza delle contraddizioni del capitalismo. Diciamo, invece, che la fase storica è cambiata e che se sul piano soggettivo – cioè sul piano della coscienza di classe – siano al punto più basso, sul piano oggettivo il divaricarsi delle contraddizioni del sistema capitalistico mondiale riapre spazi d’intervento importanti.
Bisogna però che i lavoratori si dotino di strumenti adeguati; occorre quindi ricostruire un Partito comunista degno di questo nome. L’esempio della Grecia dimostra infatti che, laddove esiste un forte partito comunista, radicato tra le masse e legato a un sindacato di classe, è possibile promuovere una mobilitazione sociale e politica ampia e qualificata; simile è la situazione del Portogallo, dove pure esiste un P.C. radicato e coeso, che è stato determinante nelle recenti mobilitazioni contro la NATO e per lo sciopero generale; ma anche le esperienze dei p.c. latinoamericani – da quello cubano, a quelli venezuelano, brasiliano ecc., all’interno di fronti popolari che stanno cambiando i loro paesi – confermano il ruolo peculiare delle organizzazioni comuniste, il che ovviamente non contraddice la necessità di una più ampia azione delle forze di sinistra, ma fornisce ad essa – e prima ancora ai lavoratori – il contributo dei comunisti nella sua forma più efficace.
Qui in Italia l’esperienza ha dimostrato che partiti privi di omogeneità, divisi in correnti, magari con una logica interna “maggioritaria”, non sono efficaci. Il discorso è diverso per aggregazioni come la Federazione della Sinistra, un soggetto politico che tiene assieme realtà diverse, e rispetto a cui la questione della omogeneità lascia il campo alla molteplicità delle forze coinvolte, che devono essere le più ampie possibili. Ma altra cosa è la questione del partito. Occorre dunque un Partito comunista rinnovato, che nasca dall’incontro tra le più omogenee forze comuniste del Paese e sia in grado di aggregare la diaspora, i compagni e le compagne che si sono allontanati dalla militanza. Un partito non verticistico, che recuperi il centralismo democratico, il quale supera le correnti, implica la discussione più ampia, obbliga chi dirige a fare sintesi, e quindi raccoglie il massimo dei contributi dei compagni. Ciò si lega alla necessità di un nuovo costume di partito, che consenta di ricostruire una modalità di rapporti basata sulla solidarietà tra compagni, sulla fiducia reciproca, sull’unità e la collegialità dell’azione politica. Ma soprattutto il P.C. deve radicarsi tra i lavoratori, affiancando all’organizzazione territoriale, che va rilanciata, una struttura di cellule nei luoghi di lavoro, sapendo che proprio la frammentazione del mondo del lavoro rende necessaria la presenza dei comunisti in tutti gli spezzoni del sistema produttivo, tra i lavoratori dei servizi ecc., legando tale presenza a un’azione efficace anche sul piano sindacale. Infine, i comunisti devono proporre un modo diverso di stare nelle istituzioni, che superi istituzionalismo e governismo, e consenta di stabilire un legame organico con settori popolari e movimenti di massa, collegandosi a essi con assemblee periodiche e una consultazione costante.