La fase attuale e i nostri compiti

I segnali di crisi di quello che chiamiamo “Occidente” si manifestano con particolare intensità: la “guerra al terrorismo”, promossa dieci anni fa con l’occupazione dell’Afghanistan, poi dell’Iraq (2003), vede le forze della coalizione USA-NATO impantanate in una situazione senza via d’uscita, con lo stillicidio sempre più frequente di attacchi (anche al con­tingente italiano), col suo seguito di morti e feriti.
E impantanata appare, dopo aver abbondantemente superato la soglia dei cento giorni, la coalizione delle principali potenze della NA­TO (salvo la Germania) lancia­tasi nella nuova avventura bellica neocoloniale contro la Libia, avallata, purtroppo, anche dal nostro presidente della Repubblica, come “intervento umanitario”, con tut­to il suo strascico di “errori collaterali”, vittime civili, distruzione di infrastrutture e inquinamento dell’ambiente per millenni a colpi di bombe chimiche e all’uranio impoverito.
La maggiore potenza economica e militare del pianeta, il cuore di tenebra dell’Occidente, gli USA, rischia il default – annunciano le principali agenzie di stampa il 6 luglio – se entro il 2 agosto il Con­gresso non approverà, come ha chiesto urgentemente il Se­gre­tario al Tesoro Timothy Geithner, l’aumento del tetto del debito pub­blico, fissato già all’astronomica cifra di 14.300 miliardi di dollari. Così gli USA aumenterebbero il tetto del debito pubblico per la sesta volta in quattro anni e per farvi fronte dovrebbero varare anch’essi una politica di tagli alla spesa pubblica (tra cui quella militare occupa un posto rilevantissimo) e/o di maggiore imposizione fiscale. E su questa questione, tradizionalmente e storicamente rilevantissima per la storia degli USA, si accentua lo scontro fra democratici e repubblicani e tra frazioni e lobby all’interno di ciascun partito.
Dall’altra parte dell’Atlantico, in quell’Unione europea che sem­bra­va un modello di stabilità e che aveva condotto trionfalmente l’“allargamento” inglobando in posizione subalterna i paesi ex socialisti dell’Europa centro-orientale e balcanica (tra il 2004 e il 2007) e in attesa di nuovi arrivi dalla ex Jugo­slavia e dall’Albania, le cose non vanno meglio, e forse peggio.
L’attacco all’euro, iniziato lo scorso anno contro gli “anelli deboli” del­l’U­nione – Grecia, Portogallo, Irlan­da, Spagna: i PIGS – lungi dall’essere stato fermato, ha sfondato già diverse barriere, gettando l’intera UE in uno stato di instabilità e incertezza economica. La scelta dei potentati economici internazionali – FMI, BCE – e dei gruppi dirigenti del nucleo forte europeo, una sorta di direttorio di fatto che decide il destino di tutta l’Unione, è stata, dall’anno scorso a oggi, quella di imporre ricette lacrime e sangue – tagli alla spesa sociale pubblica, a stipendi e salari, alle pensioni – riducendo significativamente il livello di vita, deprimendo così la domanda interna, con la conseguenza dell’avvitarsi della spirale della depressione economica. Alla Grecia è stato imposto di passare sotto le forche caudine di una terapia shock, che precipita il paese decine e decine di anni indietro.
Contro di essa scendono massicciamente in lotta, organizzati e diretti, per una parte significativa, dal partito comunista greco e dai sindacati del PAME ad esso legati, vasti strati della popolazione.
Un altro paese del lembo più occidentale dell’Europa meridionale, il Portogallo, sembra incamminato sulla stessa china, con dinamiche analoghe, che puntualmente prendono l’avvio col declassamento a junk, spazzatura, del debito sovrano da parte delle pervasive agenzie di rating, come la più importante del mondo, la statunitense Moodys (cfr. Corsera del 5 luglio).
È la stessa Moody’s che qualche settimana fa mette sotto revisione il rating Aa2 dell’Italia in vista di una possibile retrocessione, mentre un’altra agenzia, Standard & Poor’s ha tagliato l’outlook sul rating della Repubblica italiana da stabile a negativo. “Questo significa che nei prossimi 24 mesi c’è una probabilità del 33% che il rating venga abbassato. Finora l’Italia era rimasta fuori dall’ondata di retrocessioni che ha già colpito Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna. Ma la debole crescita economica e il rischio di stallo politico stanno modificando in negativo lo scenario” (Sole24ore del 21 maggio).
È in questo scenario preoccupante che si colloca la specificità della crisi italiana, con un governo traballante e truffaldino, eppure pervicacemen­te attaccato alla poltrona e deciso ad affondare, con se stesso, l’intero paese. Sconfitto pesantemente alle amministrative e nei referendum, continua con una sfrontatezza impareggiabile a fare danni: la manovra economica di 50 miliardi per contenere il deficit, come richiesto dalla UE, rivela il suo carattere totalmente classista, a detrimento delle classi medio-basse e a difesa di osce­ni e ingiustificabili privilegi del “capo” e del ceto pseudopolitico che gli tiene bordone. Al contempo, spostando al biennio 2013-2014 i più duri tagli alla spesa pubblica sociale (ma non alla guerra), agli stipendi e alle pensioni, tenta di consegnare al futuro governo la patata bollente di una politica antisociale destinata a far degradare le condizioni di vita di gran parte della popolazione, a deprimere la domanda interna, senza che s’intravveda all’orizzonte una qualsiasi politica di sviluppo del paese, un paese che anno dopo anno, mese dopo mese, è in continuo, rovinoso declino. Il volto di questo governo è impresentabile, il suo segno distintivo è ormai quello della menzogna e degli inganni più sfacciati e spudorati, dei continui trucchetti da piazzista e imbonitore di fiera di quart’ordine, come l’ultima trovata di infilare, tra le pieghe delle cento e passa pagine del “decretone”, poche righe che avrebbero evitato al kavaliere, capobastone di un partito che nomina per acclamazione il suo segretario, di pagare il risarcimento per il lodo Mondadori.
Tutto ciò, mentre il paese affonda, le condizioni generali peggiorano e un’intera generazione è derubata del­la speranza di futuro. E diviene sempre più impellente la questione di dare adeguata rappresentanza e soluzione politica alle istanze delle masse lavoratrici, dei precari, dei di- soccupati, e di tutti quanti avverto­no l’insostenibilità della situazione presente, s’indignano e protestano, ma non trovano uno sbocco politico concreto e positivo alla loro crescente insofferenza.
È una situazione in cui le forze dell’opposizione parlamentare a Ber­lus­coni stentano a trovare una posizione comune e chiara, obiettivi condivisi, rose anch’esse dal tarlo della piccola tattica politica, senza una seria prospettiva strategica, per cui si ragiona sempre e soltanto non in termini di contenuti reali, ma tutti “politicistici”, come se la politica fosse un gioco di società in cui ci si sposta nello stesso spazio con le rispettive sedie o per accaparrane altre nella stessa stanza, ignorando che i partiti sono la nomenclatura delle classi (Gramsci), che c’è, al di là del gioco degli schieramenti, la vita pulsante di chi soffre, suda, lavora e deve lottare con sempre maggiori difficoltà per la sopravvivenza. E così il leader dell’Idv, Antonio di Pietro, fiuta l’aria e, proprio a ridosso della straordinaria vittoria referendaria, lancia segnali di fumo, diretti anche a forze interne al suo partito, per lasciare intendere che non si colloca a sinistra, che guarda piuttosto al “centro”, occupando in tal modo per qualche giorno le pagine del gossip politico dei quotidiani.

È in questa situazione di crisi generale del capitalismo, dei suoi principali attori dell’Occidente, e della peculiare crisi italiana nella crisi più generale, che i comunisti avvertono tutto il peso straordinario del loro compito, delle responsabilità che hanno assunto di fronte ai lavoratori, agli sfruttati e agli oppressi, costituendosi come comunisti e mantenendo fede a questa scelta, una fede che non è fideismo o dogmatismo, ma è radicata nella storia, nel patrimonio di analisi scientifica, di idee, di militanza appassionatamente vissuta di decine e decine di milioni di uomini in carne e ossa che nel mondo intero hanno testardamente e coraggiosamente lottato e lottano.
L’avvertiamo tutta quanta questa responsabilità e ci carichiamo il compito di contribuire alla ricostruzione per questa Italia “sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa et [che] avessi sopportato d’ogni sorte ruina” (come Machia­velli la disegna ne Il Principe, cap. XXVI), di un partito politico comunista degno di questo nome e delle sfide del XXI secolo.

Abbiamo iniziato il percorso verso il congresso nazionale che si terrà attorno alla fine di ottobre del 2011. È la scadenza naturale, ma dobbiamo impegnarci affinché non sia un fatto meramente rituale e statutariamente obbligato, ma un’occasione per di­scu­tere approfonditamente la linea politica e lanciare un messaggio, attraverso una proposta che parli al Paese, alla sinistra e a tutte le forze politiche democratiche. E per avviare quel processo di “ricostruzione del partito comunista” che non è solo la cifra del congresso, ma anche la parola d’ordine e la bandiera che abbiamo adottato, non a caso, anche sulle tessere di partito del 2011.

Vittorie elettorali
del centro-sinistra

L’attuale fase è per noi decisamente migliore, rispetto a qualche mese addietro e sicuramente guardando ai tre anni che abbiamo alle spalle. Proverò a riassumere schematicamente gli elementi che ci vengono offerti dai risultati delle elezioni amministrative e dai referendum.

1. Il centrosinistra vince praticamente dappertutto, ancorché con alleanze a geometrie variabili, mentre vi è una sconfitta robusta ed inequivocabile della coalizione di destra. La Lega, per la prima volta da molti anni, registra un risultato negativo che, ovviamente, si ripercuote sull’alleanza. E nel Popolo delle Libertà vi è una crisi – evidente anche agli occhi dei suoi alleati – non solo della leadership di Silvio Berlusconi, ma anche pro­gram­matica, perché lo scontro, in particolare sul tema della riduzione fiscale e della politica estera, è ormai chiaro e alla luce del sole. Per giunta i potentati che erano stati tenuti assieme dalla forza della leadership di Berlusconi, ora non riescono più a comporre le loro contraddizioni. Penso al movimento del Sud, fondato da Miccichè, alla componente guidata da Scajola, alle varie sub-componenti. Diciamo quindi che il primo dato politico è la crisi del centrodestra.
2. Nell’ambito del centrosinistra avverto un elemento che spero pos­sa indurre anche il Partito De­mo­cratico a qualche riflessione. La società italiana si è complessivamente spostata a sinistra. La vittoria di Pisapia a Milano, di De Magistris a Napoli e di Massimo Zedda a Ca­gliari – i quali, sia pur in modo diverso, rappresentano la sinistra – ci dice che non è vero che si vince al centro. Lo schema che per tanti anni è stato evocato dalla leadership del Pd, e prima ancora dei Ds, si è dimostrato sbagliato. Lo hanno evidenziato le primarie, che hanno dato la vittoria ai candidati della sinistra rispetto a quelli moderati, e lo hanno dimostrato le elezioni. Si vince se si riesce a interpretare l’enorme voglia di cambiamento, di politiche e di persone. I referendum sono particolarmente significativi per quest’esigenza di “vento nuo­vo”, anche rispetto al tradizionale rapporto tra partiti e movimenti e tra vecchi gruppi dirigenti e gruppi generazionalmente emergenti. Può piacere o non piacere, ma i movi­men­­ti che hanno sostenuto i referendum – che hanno avuto un risultato strepitoso, 57% di partecipazione e 95% di sì – non sono in contrapposizione ai partiti, ma sono tuttavia cosa profondamente diversa. Soltanto riuscendo a interpretare questo sentimento di novità, si può fare efficacemente politica al giorno d’oggi. Quindi: spostamento a sinistra del Paese e nuova voglia di protagonismo e partecipazione delle persone, indipendentemente dai partiti.

3. La Federazione della Sinistra ha avuto risultati sorprendentemente positivi e per certi versi inaspettati. Un po’ ovunque. Nel vuoto totale di presenza mediatica e nella competizione con altre formazioni di sinistra, Sel e Idv, che hanno invece avuto un’esposizione mediatica incredibile, noi ci attestiamo a livello provinciale al 4,1% e nelle città, alle comunali, tra il 2 e il 3%, raggiungendo il 2,6% complessivo. È però una percentuale sottodimensionata. perché difficilmente analizzabile. Infatti. nelle città e nei comuni, a differenze delle provincie, ci siamo presentati con alleanze diverse, in alcuni casi con i Verdi, in qualche caso anche con Sel. Ma al di là della difficoltà di analisi, è complessivamente un risultato che premia e rilancia il lavoro delle compagne e dei compagni nei territori.
Il nostro risultato rappresenta un piccolo miracolo. Dice che quel simbolo, quando viene riconosciuto nella scheda dagli elettori, per quanto venga espunto dalla comunicazione nazionale, ha ancora un appeal e una riconoscibilità. Un non banale gradimento. Rappresenta una speranza e la voglia di lottare.

4. Ma voglio segnalare un elemento di grande importanza, sempre relativo alla Federazione della Sinistra. Noi prendiamo voti in tutte le for­me di coalizione nelle quali ci presentiamo. Nel centrosinistra clas­­sico: Pd, Idv, Sel e noi. Nel centrosinistra allargato, e cioè anche dove – penso al risultato comunale di Savona – vi era l’Udc. Lì la FdS ha ot­­tenuto un inaspettato 5,6%.
Grazie ai compagni di Savona, che hanno lavorato benissimo, il risultato è stato strepitoso.
Evidentemente il nostro elettorato non si spaventa per la presenza del­l’Udc. E nemmeno quello dell’Udc si spaventa per la nostra presenza, tant’è che a Savona il centrosinistra allargato vince al primo turno con percentuali grandissime. Ma noi prendiamo voti, riceviamo consensi importanti, anche nei luoghi dove il centrosinistra è, per così dire, ristretto. A Napoli, dove ci alleiamo con l’Idv e una lista civica a sostegno di De Magistris, con Pd e Sel fuori, la FdS prende addirittura 6 consiglieri comunali.
È quando siamo soli, fuori da un’alleanza, che veniamo drammaticamente sconfitti. È il caso di Torino. Lo sapevamo, tant’è che non abbiamo scelto noi di stare fuori dal centrosinistra, e tuttavia è la conferma di un dato di fatto. Dobbiamo prenderne atto con lucidità e trarne le conseguenze. È la logica del bipolarismo. Può piacere o non piacere, e a me non piace, ma è entrata nella testa degli italiani. D’altronde, sono vent’anni che votiamo così. Col bipolarismo non puoi chiamarti fuori: o stai da una parte o stai dall’altra.
Questi sono, molto sommariamen­te, gli elementi che ricaviamo da questa tornata di elezioni. E questi elementi confermano, a mio modo di vedere, la linea politica del partito. E la rilanciano, a partire dal ritrovato entusiasmo e ottimismo dei compagni dei territori dopo tre anni durissimi – tornerò su questo – e di invisibilità.
Possiamo oggi aprire la fase congressuale con l’attenzione tutta rivolta al futuro, senza leccarci le ferite del passato.

La nostra linea politica
propone tre livelli di unità

A. Unità tra tutte le forze democratiche. Un’unità tra tutte le forze democratiche che possa trovare, nella difesa della Costituzione, nella difesa della legalità e in alcuni punti programmatici – noi ne abbiamo indicati tre: il lavoro, la scuola pubblica e il fisco – una convergenza con le altre forze del centrosinistra. Questa alleanza democratica è in grado di sconfiggere la destra alle prossime elezioni politiche. L’importante è non ripetere gli errori del passato,
non imbarbarirsi nella discussione sulla leadership, sui metodi, sulle contrapposizioni personali. Noi comunque non intendiamo partecipare alla rissa perché il nostro avversario si chiama Silvio Berlusconi.
Quest’alleanza democratica sconta ovviamente differenze profonde su alcune grandi questioni. Ne cito solo due che rappresentano obiettivamente un problema.

L’Italia ripudia la guerra
Una è la politica estera. Noi siamo radicalmente contrari all’avventura militare in Libia, che sta peraltro rivelando tutte le difficoltà che avevamo previsto. Spesso ci capita di interpretare il ruolo di Cassandra. Guerra sbagliata in sé, perché la guerra è sempre sbagliata, non a caso la nostra Costituzione dice che l’I­talia ripudia la guerra; e sbagliata nel merito, addirittura rivoltante, visto che nel passato la Libia è stata una nostra colonia. Posso capire La Russa. Lui interpreta il ruolo che è stato dei suoi predecessori, poiché l’Italia ha bombardato la Libia durante il regime fascista. Assai meno
comprensibile e giustificabile in materia è l’orientamento prevalente nel gruppo dirigente del PD (non certo in gran parte della sua base e del suo elettorato, come dimostrano sondaggi accreditati, secondo cui oltre la metà della popolazione italiana è contraria a questa guerra).

Un’idea diversa dello sviluppo
La seconda grande differenza programmatica riguarda il modello di sviluppo economico. Con chi si sta, con Marchionne o con la Fiom? La domanda è schematica, evidentemente, ma stare con la Fiom non vuol dire solo difendere i diritti dei lavoratori, cosa in questa fase indispensabile; significa soprattutto avere un’idea diversa dello sviluppo. Non si è competitivi nel mercato globale se i lavoratori sono sottopagati, trattati come automi lobotomizzati tipo “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Questa linea è sbagliata, profondamente ingiusta e anche sciocca per un Paese industrialmente avanzato. L’Italia dovrebbe puntare tutto sulla filiera dei saperi, dell’innovazione, della ricerca.
Come ha fatto la Volkswagen in Germania, tanto da diventare la seconda azienda venditrice di auto nel mondo dopo Toyota. Ha puntato sui modelli, ha assunto nuovi ingegneri anche durante la crisi economica, ha diminuito l’orario di lavoro e aumentato i salari. Il contrario di quanto ha fatto Marchionne. Da questo punto di vista il modello di sviluppo economico è tema dirimente tra noi e larghi settori del Pd.
Queste differenze programmatiche non devono, tuttavia, minimamente mettere in discussione l’alleanza democratica, perché noi sappiamo, anche dalla storia dei partiti comunisti, dalla nostra storia, che oggi vi è un nemico principale da battere, che si chiama Berlusconi. All’interno dell’alleanza democratica avremo motivo di discussione su questi e altri temi, ma innanzi tutto bisogna mandare a casa l’attuale governo.

B. Unità delle sinistre
Proprio a causa di queste notevoli differenze, dobbiamo cercare di bilanciare a sinistra l’asse dell’alleanza democratica rilanciando il secondo livello di unità, l’unità delle sinistre. Non solo dei comunisti. Sulla guer­ra e sulla vicenda della Fiat, Sel e Idv si sono schierate come noi. E allora noi dobbiamo lavorare per allargare la Federazione della Sinistra, non per restringerla. Allargarla con un patto, nelle forme che saranno possibili, ma le più incisive, con Idv e Sel. Nelle ultime amministrative queste tre forze insieme hanno dimostrato, nella logica dell’alleanza di tutto il centrosinistra, e quindi con il Pd, di essere competitive.

C. Un’unica soggettività comunista organizzata. Quindi: unità democratica e, al suo interno, unità a sinistra sui contenuti, non politicista: ma all’interno dell’unità della sinistra è nostro compito ricostruire un’unica soggettività comunista organizzata. Lo dico senza giri di parole: dobbiamo ricostruire un partito comunista che rappresenti il superamento degli attuali partiti comunisti, noi e Rifondazione sostanzialmente, ma coinvolgendo anche tante compagne e compagni che non hanno o non hanno ancora la tessera di uno di questi due partiti, e che vorrebbero ricostruire assieme a noi un’unica soggettività comunista organizzata. Un partito. Con la propria autonomia teorica, ideale, organizzativa.
Questo schema a tre livelli è semplice da capire. Lo proponiamo ai compagni e alle compagne della Federazione della Sinistra e, in particolare, ai compagni e alle compagne di Rifondazione, che terranno il congresso poco dopo di noi. Noi offriamo la disponibilità a superare il Pdci se simmetricamente vi sarà il superamento di Rifondazione Co­mu­nista. Non crediamo nell’autosufficienza del nostro partito, sarebbe miope e anche un po’ ridicolo. Mettiamo il Pdci a disposizione di questo processo di ricomposizione, sperando che le compagne e i compagni del Prc non si chiudano in una logica di autosufficienza che, anche nel loro caso, sarebbe miope e profondamente errata.
L’obiettivo è ambizioso, ma si può fare. È persino di buonsenso, come sono di buonsenso tutti e tre i livelli di unità: quella democratica per battere Berlusconi, quella di sinistra per contare di più rispetto a temi come la pace e le politiche sociali, quella dei comunisti perché avere due partiti comunisti con quello che è successo in Italia dal 2008 in avanti è semplicemente risibile.
Mettere in contraddizione, come qualcuno fa (in perfetta malafede), la ricostruzione di un partito comunista con l’unità della sinistra è folle. Al contrario, le cose si tengono. Un partito comunista senza l’unità della sinistra si ridurrebbe ad esercizio testimoniale. Ma l’unità della sinistra senza una soggettività comunista sarebbe come fare la Bolo­gnina vent’anni dopo. Come dire che Occhetto aveva ragione e che noi ci abbiamo messo vent’anni per capirlo. Non ci sto, non ci stiamo, non ci staremo.