La fabbrica europea dell’Olocausto

Due volumi proposti da Utet – il primo dei quali è appena approdato in libreria – ripercorrono in maniera del tutto inedita e innovativa la «Storia della Shoah». Ne parliamo con lo storico Enzo Traverso dell’università di Amiens. Perché una nuova «Storia della Shoah»?

Intanto si tratta di una «storia» diversa da quelle già esistenti e non solo perché la nostra è un’opera collettiva. Il tentativo è stato quello di affrontare la Shoah come problema storico nel senso più ampio del termine: non solo l’evento, le sue premesse, le sue interpretazioni, ma anche la memoria, le rappresentazioni, l’impatto sulla cultura.

Cosa intende dire?

Che abbiamo cercato di tenere insieme le temporalità diverse che nella Shoah si condensano. Quella fulminea dello sterminio che è poi la temporalità della guerra e all’interno della quale la Shoah si inscrive come trauma e catastrofe. Quindi la temporalità lunga del processo che la prepara: mi riferisco, in particolare, alla crisi europea che esplode con la Grande guerra ma che già viene annunciata dalle contraddizioni e dalle tensioni che, in tutta Europa, si vanno accumulando nel corso dell’800. Il fascismo non è una specificità tedesca ché, anzi, nasce in Italia; il colonialismo è di portata europea così come l’antisemitismo razziale e l’eugenismo, l’anticomunismo e l’antibolscevismo. Parliamo, insomma, di un insieme di fenomeni che precipitano nel nazismo ma che precedeno l’«evento Olocausto».

E la memoria?

E’ il terzo asse temporale, quello all’interno del quale cerchiamo di capire come l’Olocausto si è andato costruendo come evento centrale nelle nostre rappresentazioni della storia del `900. Senza cadere nel relativismo radicale dei postmoderni, la storia è una rappresentazione aposteriori, ancorata ai fatti, ma pur sempre costruita nel presente, e per questo mutevole in ogni epoca. Fra cinquant’anni vedremo la Shoah con occhi diversi.

Cosa aggiungono i vostri volumi a quanto già scritto, per esempio, da Raul Hilberg ne «La distruzione degli ebrei d’Europa»?

Il testo di Hilberg resta imprescindibile ma il suo approccio è diverso dal nostro. Hilberg fa un’anatomia dell’Olocausto che vede come un processo endogeno, come una sorta di partita a due tra ebrei e nazisti facendo astrazione del contesto storico: la guerra nazista come guerra di conquista dello «spazio vitale», di colonizzazione del mondo slavo e di distruzione del bolscevismo. Lo sterminio degli ebrei è parte di questa guerra.

Lei, però, ha appena detto che la Shoah è un evento autonomo.

Sì, occorre riconoscere il carattere fulmineo e traumatico di un evento che i suoi stessi attori non avevano previsto. Né gli ebrei – che non pensavano di trovarsi di fronte a un progetto di sterminio – né i nazisti, almeno sino al `41. Dunque l’autonomia dell’evento resta un dato imprescindibile che, peraltro, mette in discussione una visione strutturalista della storia che considera l’evento, per dirla con Fernand Braudel, effimera «schiuma».

Evento autonomo, e va bene. Ma ci sarà pure un modo per risalire alle sue origini?

Io credo che le origini della Shoah si configurino a posteriori: esse nascono dall’evento attraverso una ricognizione retrospettiva delle sue premesse ma queste non lo contengono. Rimane uno scarto rispetto a tutte le premesse che si possano prendere in esame.

Parliamo, dunque, di premesse che non vanno considerate alla stregua di vere e proprie cause?

L’Olocausto non è uno sbocco fatale e meccanico ma – ripeto – la condensazione e la precipitazione di tensioni accumulate nel corso di decenni. L’antisemitismo, il colonialismo e l’imperialismo classico con il loro corteo di genocidi, guerre di conquista e stermini giustificati e legittimati sul piano ideologico dal razzismo. Esperienze dalle quali il nazismo ha ricevuto in eredità anche un linguaggio: penso, per esempio, alla nozione di «subumanità», «estinzione delle razze», «annientamento».

Un concetto ereditato dalla Grande Guerra, non crede?

Come ha scritto George Mosse, la Grande Guerra ha «brutalizzato» le società europee, è stato il momento in cui l’Europa ha scoperto il massacro industriale, la morte anonima di massa e i campi di concentramento. Senza cadere nel determinismo, la Grande Guerra è premessa senza la quale lo sterminio degli ebrei sarebbe stato inconcepibile.

Nel saggio di Dan Diner che apre il primo dei due volumi, si parla di «Zivilisationsbruch», di frattura di civiltà come epistemologia della shoah. Che vuol dire?

Un genocidio è una rottura di civiltà perché è lacerazione di un tessuto elementare di solidarietà umana soggiacente al funzionamento della società, al di là dei singoli conflitti nel corso dei quali, come ha sostenuto Habermas, anche nel nemico si riconosce un essere umano. E il concetto di genocidio è nato con la Shoah. Ma la Shoah è una rottura di civiltà che nasce dalla civiltà ed è un prodotto della civiltà.

Dunque lei è contrario a considerare il fascismo o il nazismo come «semplice» ricaduta nella barbarie.

La barbarie del fascismo e del nazismo sono l’altra faccia della civiltà occidentale moderna.

Torniamo, insomma, alla dialettica dell’illuminismo.

Sì. Alcune premesse dell’Olocausto risiedono tutte nelle conquiste della civiltà: nella sua fenomenologia, l’Olocausto presuppone una razionalità produttiva e amministrativa che Max Weber indicava come uno dei tratti salienti dell’Occidente e un paradigma fordista di produzione in serie che ora viene usato per distruggere.

«Modernità e Olocausto», insomma, per dirla con Baumann?

Per far funzionare un campo di sterminio bisogna avere delle competenze tecniche e amministrative. Per costruire e far funzionare le camere a gas e i forni crematori occorre una razionalità strumentale i cui agenti possono fare a meno dell’ideologia e che, per parlare con Weber, spesso si considerano eticamente deresponsabilizzati: basti pensare ai funzionari che stilano le liste degli ebrei o che controllano il sistema dei trasporti. Tutto questo – come ha ben scritto Baumann – implica le acquisizioni della civiltà industriale moderne. La Shoah è sì rottura di civiltà ma una rottura che quella civiltà suppone.

Quanto ha a che fare tutto ciò col passaggio dall’apocalisse della modernità all’apocalisse totalitaria di cui parla Emilio Gentile nel volume?

Gentile analizza un mutamento che avviene nella cultura europea alla svolta del secolo e che rimane a monte della Shoah. La sua è una formula efficace che indica la transizione da una critica della modernità fattasi virulenta e diffusa già a partire dalla fine dell”800 – la modernità che distrugge valori, tradizioni, natura, rapporti sociali – a una vera e propria offensiva contro la modernità condotta però, dopo la Grande Guerra, con gli stessi strumenti della modernità.

Il fascismo come controrivoluzione?

Sì, ma una controrivoluzione moderna. Il fascismo non critica la modernità dal punto di vista passatista ma adotta un linguaggio rivoluzionario e intende sfruttare la democrazia come forma sociale. Al cuore dell’apocalissi totalitaria nella sua forma nazista c’è una singolare commistione di romanticismo e modernismo, di valori arcaici ereditati dalla critica dell’illuminismo e tecniche, linguaggi e strumenti del tutto moderni.

Oltre che di rottura di civiltà, ritiene che sia legittimo parlare anche di una rottura del paradigma dell’uguaglianza?

Certo il nazismo si oppone a questo paradigma, che è il presupposto della democrazia. Mettendo fine a un secolo di emancipazione ebraica in Germania, le leggi di Norimberga segnano incontestabilmente una rottura del paradigma dell’uguaglianza, ma si tratta di una rottura che va contestualizzata. Non bisogna dimenticare che nella prima metà del secolo l’Europa è ancora coloniale e imperiale e che il liberalismo di quegli anni non è democratico ma conservatore: algerini e indiani sono sudditi, non cittadini. Hitler vuole assimilare il mondo slavo alle colonie asiatiche o africane e trasferire nel mondo slavo – il Lebensraum tedesco – un modello coloniale che riguarda l’Eurpopa nel suo insieme.

Per questo lei cita Hanna Arendt là dove afferma: «Il fatto è che una situazione di completa privazione dei diritti era stata creata prima che il diritto alla vita venisse messo in discussione»?

Sì, anche perché Arendt non si riferiva solo agli ebrei ma a tutti coloro che – dopo il 1918 – cominciano ad essere considerati dei «paria» in virtù di una ridefinizione dell’Europa che, ispirata al modello dello stato nazione come alternativa ai grandi imperi multinazionali, crea grandi masse di profughi e di apolidi, di senza patria e senza diritti.

Torniamo all’«evento Olocausto». Chi riguarda?

Certo le vittime e i carnefici ma anche l’Europa nel suo insieme, perché se i tedeschi sono riusciti a sterminare gli ebrei è stato anche «grazie» alla complicità passiva della società tedesca, al sostegno attivo dei regimi alleati e di una parte dell’Europa profondamente contaminata dall’antisemitismo.

Questo dal punto di vista della storia. Ma da quello della memoria?

La Shoah è entrata nella coscienza storica del mondo occidentale, tanto che si può parlare di ossessione della memoria, quasi una compensazione tardiva rispetto al lungo silenzio che l’aveva avvolta nel dopoguerra. E tuttavia la retorica della memoria rischia di diventare sterile. Il problema non è quello di ricordare ma dell’uso politico che della memoria si fa. Intendo dire che non serve commemorare ogni anno la liberazione di Auschwitz o far leggere Primo Levi nelle scuole se non si cerca di inscrivere nel presente questa memoria, mettendola in rapporto alle nuove forme di razzismo, ai genocidi della fine del `900.

Non crede che la memoria della Shoah sia anche un modo attraverso cui le diverse identità nazionali ridefiniscono se stesse?

Credo che la memoria della Shoah sia diventata una sorta di religione civile dell’Occidente democratico. Per essere solide e virtuose, le democrazie devono conservare la memoria dell’Olocausto. E’ un fatto importante. Ma questa religione civile ha le sue zone d’ombra e non deve sottrarsi alla critica: tra gli statisti che nel gennaio scorso hanno commemorato ad Auschwitz la liberazione dei campi di sterminio, c’erano anche i responsabili di Guantanama e di Abu Ghraib.

Molti ebrei hanno cominciato a parlare di Shoah anni dopo la fine della guerra. Perché?

La memoria ha una sua temporalità, segue spesso percorsi lunghi e tortuosi. Nel dopoguerra gli ebrei non volevano apparire come vittime ma reintegrarsi nelle comunità nazionali dalle quali erano stati strappati. Poi ci sono stati degli eventi che hanno funzionato come detonatori: penso al processo di Eichmann a Gerusalemme. Per la prima volta i sopravvissuti hanno potuto parlare e essere ascoltati. Per Israele – che nel `48 non vuole apparire come un paese di reduci ma di combattenti – è stato un grande momento di svolta: la memoria dell’Olocausto diventa fonte di legittimazione della sua esistenza e della sua politica. Israele stessa diventa la risposta all’Olocausto. Quanto all’Europa, sarà il movimento studenteco tedesco – negli anni `60 – a porre nuove domande alla generazione dei padri: «perché il nazismo», «perché l’avete accettato senza ribellarvi», «perché la Shoah»? Interrogativi che prendono finalmente forma all’interno di una generazione che vuole capire. Sono alcune tappe di un processo che non è stato lineare.