La divisione del lavoro che ci irretisce

Un certo sostegno alla provocazione di Cavallaro (manifesto 4 agosto) si rinviene nella riflessione di Amartya Sen: ad esempio laddove argomenta la coerenza tra aspirazioni alla limitazione della concorrenza e visioni precapitalistiche dell’agire economico. Così, senza pretendere di surrogare desueti percorsi di liberazione, chi fosse attratto dalle possibilità di espandere la sfera delle libertà, potrebbe ben sostenere anche la liberalizzazione degli scambi. Un atteggiamento intellettuale di questo tipo non suscita certo scandalo nel XXI secolo, purché si riconosca l’irrealtà del libero mercato come costrutto sociale autonomo.
Tanto Sen quanto gli economisti classici, tuttavia, si interessano al mercato innanzitutto per questioni diverse dall’efficienza: il primo ne fa uno dei mezzi (e dei fini) di alcune libertà individuali, i secondi ne esaltano il ruolo promotore della produttività. In tema di sviluppo si tratta di interessi più che legittimi. Sebbene presso i governi la varietà delle tesi degli economisti sia meno popolare di quanto non lo siano le identità proposte dall’ideologia del libero mercato, non bisogna tuttavia scoraggiarsi né diffidare degli studiosi. Alcuni elementi utili alla comprensione del mondo, infatti, sembrano emergere ancora e con chiarezza dai classici. E’ tutt’altro da sottovalutare, ad esempio, la circostanza che l’attrazione provata da quegli economisti nei confronti del libero commercio fosse congiunta all’identificazione del ruolo del mercato nella conformazione della divisione del lavoro e nella crescita della produttività.
Un tratto comune delle pratiche capitalistiche è di fondarsi su di un unico modo di associazione tra libertà di produrre e libertà di scambiare. Tra le molte, possibili forme di connessione, la razionalità economica capitalistica, attraverso faticose ma costanti metamorfosi, ha reinventato sistematicamente quella che permette di finalizzare il prodotto come valore di scambio. E’ largamente condivisa la consapevolezza della corrispondenza funzionale tra impresa e mercato nelle economie capitalistiche. Si tratta di una relazione ovviamente stretta, un’immagine di Simon, piuttosto in voga, la richiama efficacemente. Sotto questo profilo, gli ingredienti correttivi del mercato, una sua regolazione, avrebbero il mero effetto di modulare l’unicità dell’associazione tra produzione e scambio, acquisendone i radicamenti sociali ad una sorta di necessità antropologica. Sebbene le regolazioni possano talvolta apparire desiderabili, si può certo fare a meno di necessità non dimostrate.
Sembrerebbe esserci dunque qualche argomento a favore delle tesi che, polemiche verso l’estensione indiscriminata del libero commercio, in realtà intenderebbero più efficacemente rivolgersi alla critica dei modi di produzione che quello veicola, trascina o comunque diffonde. Le ragioni di queste tesi, almeno di talune, risiederebbero nella potatura della multiformità sociale che l’univocità dell’associazione prodotto-valore di scambio, è il caso di dirlo, produce. Questa multiformità, se proiettata sul piano della divisione del lavoro è forse meno romantica di quanto sottolineino talune (tarde) riletture dei lineamenti fondamentali della critica.
La centralità del rapporto tra divisione del lavoro e mercato è tratto importante dell’Economia Politica classica. Esistevano ottime motivazioni per accettare l’idea che il mercato fosse la principale collezione di regole nel raccordo e nell’accrescimento numerico di stadi produttivi interdipendenti. Ma nessuno potrebbe sostenere oggi che la nostra vita economica sia ora dovuta alla medesima divisione del lavoro vigente due secoli fa. Occorre invece assumere come dati di fatto i modi e le intensità secondo cui quella divisione si è approfondita, in termini di soggettività, di fasi, di articolazioni territoriali.
Se si guarda alla scala planetaria, come fanno i movimenti, ordini diversi di divisione del lavoro – geograficamente e storicamente determinati – dovrebbero risultare integrati, secondo l’aspirazione di un certo numero di governi, dalla diffusione del libero commercio. Vi è una differenza sostanziale – oggettivamente meno sbandierata d’altre ovvietà – nel qualificare oggi come precapitalistico un assetto produttivo e di scambio del XVIII secolo ed uno del XXI: nel primo caso si fa analisi, nel secondo si intende prescrivere un futuro tra quelli possibili. Questa prescrizione è sostenuta sulla base dell’esito che ha avuto, in termini di creazione di ricchezza, la specialità del legame prodotto-valore di scambio di cui si diceva.
Tuttavia, mentre da un lato si diffonde la consapevolezza che sia opportuna una revisione dei metodi di contabilizzazione di questa ricchezza, dall’altro sempre più consistenti risultati dell’analisi economica segnalano una varietà dell’esperienza capitalista, tanto accentuata quanto taciuta dalla propaganda.
Ad esempio, si semplifica eccessivamente la storia dello sviluppo economico europeo se si mascherano i costi sociali di costituzione dei mercati nazionali. Ma si crea una confusione ancora più grande se si includono nella conta dei vantaggi del libero commercio (senza altri attributi) le “prestazioni” rese possibili da mercati comunitari, geneticamente estranei alla ideologia individualizzante di certo economicismo estremista. Ad esempio, reti di imprese hanno appreso a trattare esternalità affermando assetti tra i cui stadi il mercato non riesce né a stabilire una separazione completa ed efficace né un raccordo efficiente, in breve non si sostanzia di regole di integrazione sufficienti alla bisogna.
La realtà così propone immagini che destano qualche interesse. Le regole d’integrazione del lavoro in molte zone del mondo lasciano ipotizzare possibilità distinte di affermazione della libertà di produrre e della libertà di scambiare, è un territorio questo che potrebbe valere la pena di esplorare. Queste possibilità appaiono con maggiore chiarezza se si considera il Pil un mezzo dello sviluppo (come suggerisce Sen), se non si dimentica che la crescita della ricchezza pone a sé stessa limiti nell’instaurarsi di regimi di consumo posizionale (sarebbe di un certo interesse teorico, a proposito, la segnalazione empirica di reti costituite a garanzie di tale tipologia di consumi; particolarmente in comparazione alla diffusione dei sistemi di corruzione, ammessa con frequenza francamente indesiderabile da malintese interpretazioni della libertà di iniziativa economica e di commercio).
Nelle aree economiche e geografiche “sviluppate” si mostrano ulteriori tratti. Trasformazioni imponenti hanno interessato i capitalismi già sviluppati. Negli ultimi decenni del Novecento, si è assistito a cambiamenti profondi di molte dimensioni della produzione. Giovani (e meno giovani) europei e d’altri continenti hanno sperimentato collocazioni anomale rispetto al processo produttivo. Collocazioni che, senza pregiudizio alcuno, si possono ricondurre solo con estrema difficoltà ai momenti costitutivi della divisione sociale del lavoro, soprattutto al lavoro classicamente salariato.
La trasformazione del capitalismo dovuta al nuovo ruolo produttivo della conoscenza, così come messa in luce dalla recente analisi economica, suggerisce implementazioni significative della divisione sociale del lavoro. Da un lato emergono figure, talvolta contingenti, che contribuiscono al processo di produzione sostenendo costi elevatissimi di ingresso nei circuiti della produzione. Dall’altro, la valorizzazione della conoscenza impone di distinguere tra la sua diffusione e la sua socializzazione e, non va dimenticato, il mercato, in quanto complesso di regole dedicate alla realizzazione del valore di scambio, integra il minor grado possibile di socializzazione tra i soggetti in relazione. La novità del ruolo economico della conoscenza, laddove si afferma storicamente, mette così in luce una proprietà del mercato che non poteva essere colta dell’Economia politica classica. Esso infatti si configura quale utile congegno per la distinzione tra diffusione e socializzazione della conoscenza, inducendo a sottostimare il bisogno di ulteriori istituzioni. Istituzioni che non pongano, cioè, alla creazione di conoscenza potenzialmente produttiva limiti derivanti dal rapporto atteso tra tasso di diffusione e tasso di socializzazione.
Forme di divisione del lavoro che potrebbero sostenere idee locali circa la connessione tra libertà di produrre e libertà di scambiare necessitano di luoghi di scambio idonei alla sperimentazione, dai quali, come taluno suggerisce, possano trovare origine percorsi di sviluppo meno costosi di quelli ora in promozione nella vetrina dell’Occidente.
Forme implementate e moderne di divisione del lavoro, che sostengono assetti produttivi basati sulla conoscenza, pongono una domanda di innovazione istituzionale dell’ordine economico e regole di integrazione non centrate sul mercato. La critica al mercato come espressione dell’univocità dell’associazione tra libertà di produrre e di scambiare e l’aspirazione a regimi più articolati sembrano comuni denominatori di due immagini di vita economica altrimenti lontane.
Quasi per inciso si può notare che cresce il numero ed il tipo di richieste di autorganizzazione nei confronti della società. Si tratta di un modo di tenere conto delle reticolazioni che la definiscono. Apertamente si afferma così che l’organizzazione delle reti assolve taluni compiti (chiaramente limitati) in misura preferibile all’azione dell’organizzazione statuale. Su questo terreno, di un certo interesse sarebbero le risposte al quesito circa i beni che i sistemi di reti possono produrre e mettere in circolazione. Sembra così utile chiedersi, quali risorse economiche debbano essere gestite da queste istituzioni e come si regoli l’accesso ad esse ed all'”offerta” dei beni da queste predisposti. Chissà che l’identificazione dell’interdipendenza tra mercati, imprese e reti, non doni l’esternalità d’un rinnovamento di qualche fantasticheria fiscale. Sembra resti il fatto, comunque, che il contributo alle nuove configurazioni di divisione del lavoro che le reti possono sostenere ha le sue radici nella socializzazione, sostanza della comunità della “pratica”, piuttosto che nell’anonimato dello scambio. Forse è questo uno dei motivi per cui tale radice attira le cure attente di un fascismo circoscritto e sperimentale, ma certo facinoroso.

*Università di Perugia