Già, la Crimea. Con il consueto (diplomatico) tono soft e l’altrettanto consueto (equidistante) garbo, Sergio Romano col suo fondo sul Corriere della sera di qualche giorno fa, ha in realtà calato un niente affatto lieve fendente su D’Alema e il governo Prodi. Laddove, in quel fondo (che ci è tornato in mente vedendo «partire» i nostri soldati), ha evocato appunto la guerra di Crimea nel commentare l’ansia e la fretta del ministro degli Esteri italiano di scendere in campo e di schierare “la truppa” – primi fra tutti in Europa -sul minato scenario del Libano.
Non precisamente un complimento. In quel fondo, infatti, (titolo “La sindrome di Crimea”, uscito il 25 agosto), l’editorialista del “Corriere” scriveva: «Quando decise l’invio di 18 mila uomini in Crimea nell’aprile del 1855, Cavour sapeva che le truppe del Regno di Sardegna non avrebbero dato un contributo decisivo alla guerra contro la Russia o alla soluzione della Questione d’Oriente. Voleva solo conquistare per sé e per il Piemonte un posto al tavolo della pace». Al tavolo dei Grandi, cioé. E concludeva che quella guerra, sia pure inutile e condotta come mera mossa di prestigio in una partita internazionale – mettendo sul piatto non «marenghi d’oro ma un pugno di uomini» – finì tuttavia bene ed ebbe un risultato positivo. Troppo buono. Sergio Romano non lo dice (lo lascia intendere, un pochino), ma la guerra di Crimea – anche quella – fu una autentica e patentata porcheria (sanguinosamente pagata dai soliti poveracci).
Quando salta fuori questa strana guerra di Crimea laggiù in un posto sconosciuto, l’Italia come Italia non esiste ancora, non è un solo Stato, anzì di Stati ne conta otto. Uno dei quali è appunto quello sabaudo, il piccolo regno del Piemonte che ha come capitale Torino, come re Vittorio Emanuele II di Savoia che conosce quasi solo il dialetto piemontese, e come ministro quel conte Cavour, che parla francese (e ha un segretario addetto a correggere l’italiano stentato dei suoi discorsi).
La Madrepatria Italia in sostanza non c’entra con la vocazione nazionale e lo slancio unitario della monarchia piemontese, infatti «in quei sovrani semifrancesi -. scrive Denis Mack Smith (“Storia d’Italia 1861-1969”, Laterza) – non albergava nessun sentimento particolare per l’Italia, ma piuttosto l’ambizione puramente dinastica di espandersi in qualsiasi direzione possibile». Di espandersi, soprattutto perchè uno Stato più grande e più forte è proprio ciò che serve al mercato, all’industra, allo sviluppo economico, allo sforzo di ammodernamento (con annessa azzardata politica finanziaria) che contraddistinguono quel Piemonte di metà Ottocento. E Cavour è convinto – e a questo lavora testardamente e pazientemente – che tale sforzo è destinato a restare inutile senza l’inserimento del Regno di Sardegna nell’Europa più progredita. Tra Francia, Inghilterra, Austria, Russia, Turchia.
Ma come? L’occasione d’oro gli arriva. Da lontano. C’entrano un imperatore, un sultano, uno zar. E’ il marzo 1853 e lo zar Nicola I decide di riaprire la contesa con l’Impero ottomano, reclamando la riapertura del Bosforo e dei Dardanelli al passaggio delle navi da guerra straniere (ivi comprese quelle russe) e intimando il riconoscimento del protettorato russo sui greci ortodossi turchi. Il sultano rifiuta l’ultimatum, è la guerra. Francia e Inghiterra scendono in campo come alleati della Turchia; l’Austria, che in un primo momento si mantiene neutrale, l’anno dopo, di fronte alle difficoltà che sta incontrando l’esercito anglo-francese, è pronta a intervenire al loro fianco. Francesi e inglesi, infatti, attestati a Varna, in Bulgaria, sono costretti a portare la guerra fino in Crimea e ad assediare Sebastopoli, la principale base russa. Il conflitto minaccia di andare per le lunghe. E’ l’ora di Cavour. Un corpo di spedizione piemontese da inviare là in Crimea a fianco di quel fior fiore di potenze europee, appare agli occhi del ministro in cerca di pole position la mano della provvidenza. Non è facile, molti nel suo stesso governo recalcitrano e le trattative segrete intavolate con le tre potenze – corpo di spedizione in cambio di garanzie territoriali pro monarchia sabauda in Italia – non sortiscono alcun effetto.
Anzi, a Cavour, il 7 gennaio 1855, le suddette Potenze intimano di prendere o lasciare con tanto di ultimatum. E Cavour naturalmente “prende”, il suo sogno si avvera, quel minuscolo regno italico che non c’entra in nessun modo con ciò che sta accadendo nel mondo, approda alla scena internazionale, finalmente “gioca” tra i Grandi, in quella che, anche allora, è la Questione d’Oriente.
«Il Piemonte era entrato in una guerra lontana e impopolare senza alcuna contropartita. In Crimea fu inviato un corpo di spedizione di 15-18 mila uomini, comandati autonomamente da un generale piemontese, Alfonso La Marmora, il finanziamento fu assicurato mediante un prestito negoziato in Inghilterra. Le truppe sarde furono schierate sul fiume Cernaia, il 16 agosto 1855 contribuirono validamente a respingere un tentativo russo di rompere l’accerchiamento» (“Storia Universale”, Corriere della sera).
I morti in battaglia furono 14, i feriti 170, le vittime della peste 1300. Quando, il 24 febbraio 1856, si apre il Congresso di Parigi per le trattative di pace, Cavour, finalmente e sia pure a fatica (l’Austria non ne voleva sapere di ammettere al tavolo parigino quel piccolo Piemonte), può assidersi da ministro di una Sesta Potenza.
«Un risultato storico»: anche Cavour, con molto orgoglio, allora ebbe a dire. Congresso a parte, tuttavia, non ottenne poi granché, nonostante quel seggio conquistato al tavolo di Parigi. Il Lombardo-Veneto rimase saldamente nelle mani dell’Austria, Francia e Inghilterra se ne nfischiarono. Dovette venire il ’59 e una nuova guerra, come si sa.
Ma come andò veramente là in Crimea? Lo racconta Diego Novelli, nel suo libro intitolato “Amor di Patria” (Daniela Piazza editore). I soldati, in gran parte bersaglieri, salparono da Genova il 30 aprile 1855 su un vapore inglese di nome Tamar. «Per giungere nel porto di Balaklava quel cattivo bastimento aveva impiegato diciannove giorni. Il rifornimento di acqua e di carbone aveva comportato una sosta di 36 ore. I viveri forniti dagli inglesi, a carico dei quali viaggiavano come un piccolo esercito mercenario, erano scarsi e scadenti». Lo sbarco a Balaklava avviene alle 11 del mattino del 17 maggio. «Dopo due ore di marcia, assetati per il gran caldo, si accamparono attorno alle baracche di legno. Lì restarono per otto giorni, provando le prime grosse difficoltà della guerra: ll cibo scarseggiava, erano costretti a dormire sulla nuda terra». Da lì la notte del 25 passarono a Kamara. La sera dopo nel nuovo accampamento «si sparse la voce che il bersagliere Abricon era morto di sincope. ll malcapitato, disteso per terra, si contorceva dai dolori. Nel corso della notte aumentarono i colpiti da tale malattia. Che altro non era che il colera asiatico».
Moriranno di peste in 1300, quasi il dieci per cento. «Le vittime del morbo furono tante che non bastavano gli infermieri per seppellirle. Per assolvere alla triste bisogna furono chiamati dei contadini turchi i quali ogni mattina venivano a raccogliere i defunti». Dicono che la Storia si ripete, speriamo di no.