La difficile rappresentanza degli italiani all’estero

Le recenti vicende relative al voto di fiducia al Senato e il ruolo determinante del senatore Pallaro, eletto in Sud America nella lista delle «Associazioni italiane nel mondo», spinge a ulteriori riflessioni sulla questione del voto degli italiani all’estero, anzi sulla questione degli italiani all’estero in generale.
Nel mondo dell’emigrazione – nelle associazioni di destra, di centro e di sinistra, cattoliche e laiche, nuove e antiche, nazionali, regionali e comunali – c’era da tempo un orientamento molto favorevole a una legge su questo tema. La legge – per tanti versi criticabile – ha alcuni aspetti meritori. Innanzitutto essa permette ai cittadini italiani, che sono dovuti andar via dal loro paese, la possibilità di esprimersi sui problemi che li interessano direttamente (previdenza, assistenza, condizioni per il ritorno e quant’altro) o in quanto cittadini in generale.
L’on. Berlusconi ritiene che essi non dovrebbero avere diritto di voto poiché non pagano le tasse. E questa è una teoria antica. Anzi, nel ‘700 si poteva ritenere rivoluzionario il legare la rappresentanza politica al pagamento delle tasse e rovesciare a mare le navi cariche di tè sostenendo «No taxation without representation». Ma poi si è fatto qualche passo in avanti e io penso che il diritto di voto spetti anche ai poveracci, finanche se emigranti.Trovo quindi incomprensibili le affermazioni del compagno Ramon Mantovani, secondo il quale si tratta di «una legge che si basa sulla demagogia e sulla disinformazione» e che «se gli immigrati che pagano le tasse in Italia non hanno diritto al voto, non vedo perché dovrebbero averlo gli italiani residenti all’estero».
Sono, ahimè, costretto a ribadire che la legge non estende un diritto a chi non ne godeva ma ne permette solo l’esercizio in modo diverso (più o meno come negli altri paesi civili). Poi per vari motivi alle elezioni del 2006 le cose sono andate meglio del prevedibile. A parte il fatto che il diritto di voto agli emigranti va riconosciuto anche quando essi premiano Pallaro – e si lasciano democristianamente rappresentare dal suo raggruppamento corporativo – va detto che la scelta elettorale è stata diversa e ha premiato l’area democratica. Infatti gli elettori – localizzati, appunto perché emigranti e non pronipoti di emigranti, specie in Europa – hanno fatto in larga parte una scelta, per così dire, di classe.
E c’è di più. Anche il meccanismo elettorale ha finito per essere più democratico grazie all’esistenza del voto di preferenza. Se all’interno dell’Unione si esamina la collocazione politico sociale si nota che in generale sono stati votati i più attivi e rappresentativi. La pattuglia di parlamentari dedel centro-sinistra è costituita da gente che ha lavorato meritoriamente tra gli italiani emigrati in Europa e anche oltreoceano: persone legate ai patronati, alle associazioni di emigranti, alle istituzioni cattoliche e laiche che storicamente si sono spese nell’interesse di quella parte svantaggiata della popolazione italiana che ha tentato di costruirsi un futuro attraverso il cammino della speranza, retorica a parte.
La questione aperta riguarda il tipo di rappresentanza e il tipo di bandiera che si porta avanti. Tremaglia e la destra sono stati battuti anche perché la tematica da essi più agitata è stata quella del corporativismo, del nazionalismo e della retorica patriottarda: dell’identità culturale, come direbbero i post-fascisti nel Cnr. Gli altri hanno saputo puntare su tematiche più concrete: meno Duce e più pensioni, meno romanità e più scuola.
Intendiamoci: per ora è andata bene, ma non è detto che vada sempre così. Molto dipenderà in futuro da una larga serie di variabili: il comportamento degli eletti, il loro rapporto con le associazioni, l’operato di queste ultime, l’effetto mediatico dei comportamenti e delle prese di posizioni. E poi c’è da considerare l’operato del governo in generale e con riferimento alle istanze di cui si fanno portatori. Tutto ciò con un pesante elemento di complicazione rappresentato dal fatto che i deputati eletti all’estero sono rappresentanti di un’area definita non solo territorialmente, ma anche socialmente: gli emigrati.
Dopo la giusta autocritica per il disprezzo nei confronti degli emigrati-votanti, sarebbe ora pericolosissimo sedersi sugli allori. Infine – e qui c’entra l’eterogenesi dei fini – non bisogna neanche sottovalutare qualche elemento assolutamente casuale che ha favorito l’Unione e il governo Prodi. In linea teorica, tanto per rendere la faccenda ancora più complicata, il sistema elettorale all’estero contiene, oltre alla persistenza delle preferenze, anche qualche altro elemento antico, cioè il carattere proporzionale. Ma questo stesso è a sua volta automaticamente contraddetto nelle situazioni in cui si può eleggere un solo parlamentare. In questo caso vincono per definizione quelli che si aggregano: come hanno fatto giustappunto i partiti dell’Unione mentre Tremaglia e Berlusconi sono andati ciascuno per fatti propri. Il che non vuol dire che la volta prossima faranno la stessa cosa: la lezione è facile da imparare. Ci sono poi dei problemi che riguardano l’intera area della rappresentanza degli italiani all’estero. Personalmente ho sempre ritenuto dirimente la differenza tra «cittadini italiani residenti all’estero» e «italiani nel mondo», cioè persone che si possono ritenere appartenenti a una sorta di diaspora italiana in rapporto alla loro origine e all’identificazione con le proprie radici nazionali e culturali. Naturalmente votano solo i primi. E è giusto così. Ma anche da questo punto di vista le cose sono un po’ più complesse di quanto si possa ritenere a prima vista. E soprattutto si stanno complicando di recente. I titolari di cittadinanza italiana all’estero cambiano velocemente (centinaia di migliaia ogni anno). Molti scompaiono per motivi naturali (gli emigrati più anziani) mentre alcuni altri accedono alla cittadinanza del paese di residenza. Ma ci sono anche quelli che nascono all’estero come cittadini italiani e quelli che riacquistano la cittadinanza italiana alla quale hanno già diritto (fenomeno che tenderà a estendersi). Inoltre le associazioni degli italiani all’estero e lo stesso lavoro all’estero di istituzioni italiane di solidarietà (Inca, Acli, Filef, Colonie Libere, etc.) non hanno un orientamento discriminatorio nei confronti dei non-più-cittadini. Ciò senza considerare il crescente numero di persone con la doppia cittadinanza.
Insomma la questione è piuttosto difficile e gli interessi e i problemi di rappresentanza si intrecciano. Forse però si può fare qualche passo in avanti se – anziché contrapporre i diritti degli immigrati a quelli degli emigrati – si prende atto degli interessi generali e comuni dei migranti nella società globalizzata a cominciare dai diritti sociali di cittadinanza dei lavoratori stranieri residenti: siano essi marocchini in Italia o italiani in Germania.