La difesa contro il licenziamento immotivato garantita dalla legge 300 del 1970 è la base per esercitare ogni altro diritto da parte di chi lavora. Ed è una garanzia che è poco estesa visto il suo reale campo di applicazione e vista la radicale trasformazione del mercato del lavoro all’insegna della flessibilità. Neppure l'”arbitrato” che viene proposto da alcune parti come alternativa all’articolo 18 può essere una soluzione credibile. Questo, in estrema sintesi, il giudizio di Sergio Mattone, oggi membro del Csm, per anni giudice del lavoro e di Cassazione.
D – Sembra che in corso ci sia un vero e proprio attacco ai diritti che supera le polemiche spesso pretestuose sul cattivo uso dell’articolo 18. Una campagna che si lega a quella dell’aumento della flessibilità del mercato del lavoro. Che cosa ne pensa?
In questi ultimi anni la smania di flessibilità ha raggiunto punte mai viste. E la polemica sulla scarsa flessibilità o peggio sulla rigidità del sistema è una falsa polemica perché la flessibilità esiste e si è estesa ovunque, sia in entrata che in uscita: dai contratti a termine a tutte le forme dei lavori cosiddetti atipici, fino a quelli parasubordinati del lavoro autonomo. Fare pensare che in Italia non si può licenziare è proprio sbagliato. I licenziamenti sono già ampiamente garantiti in varie forme. Si può dire – al contrario di ciò che sostengono coloro che parlano di rigidità – che l’area della stabilità reale è molto limitata. E dobbiamo anche ricordare che i lavoratori esercitano davvero tutti i loro diritti quando hanno questa base reale. Il diritto a difendersi dal licenziamento è cioè la base per tutto il resto, altrimenti il lavoratore rischia di rimanere un minus, dal punto di vista dei diritti. Se hai una stabilità e una garanzia di poterti difendere in caso di licenziamento allora puoi pensare di partecipare e di esercitare anche gli altri diritti sindacali. Altrimenti prevale la paura.
C’è chi propone la cancellazione dell’articolo 18 e chi invece si oppone al suo superamento proponendo un maggiore ricorso agli arbitrati. Lei che cosa ne pensa?
Penso che l’arbitrato o qualsiasi altra forma di difesa che non sia il giudice non debba essere in alternativa alla legislazione. Il lavoratore deve avere casomai la libertà di scegliere tra l’arbitrato e il ricorso al giudice. Ma se si cancella l’articolo 18 questo non potrà più avvenire. Tra l’altro bisogna subito chiedersi quali sono i soggetti veramente rappresentativi che possono fare da arbitri.
Lei si riferisce alla rappresentatività dei sindacati e alla legge?
Esatto. Per essere arbitri bisogna essere rappresentativi. E oggi i sindacati non possono rappresentare tutto il mondo del lavoro. Devo dire che purtroppo il centro sinistra non è riuscito a portare a termine due grandi occasioni in questo campo. C’erano due disegni di legge, quello sulla rappresentanza del mondo del lavoro e quello dei lavori atipici. Ripeto l’arbitrato non può sostituire il ricorso al tribunale. Certo dobbiamo snellire le procedure e velocizzare i processi, ma sarebbe davvero molto grave se si abolissero questi diritti in cambio di un risarcimento in denaro. Per i datori di lavoro non è certo la stessa cosa, sapere che c’è una magistratura che fa rispettare i diritti. Il potere deterrente è di tutt’altra natura rispetto al risarcimento.
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Ecco cosa dice l’art.18 dello Statuto:
L’articolo 18 vale per tutte le aziende con più di 15 dipendenti. La legge 300 del ’70 è comunemente conosciuta come “Statuto dei lavoratori”. Il più famoso e il più citato dei suoi articoli è appunto il numero 18: “reintegrazione nel posto di lavoro”. In genere, quando si parla dell’art.18 si pensa all’impossibilità di licenziare senza una “giusta causa” o “giustificato motivo”. In realtà l’articolo 18 stabilisce l’inefficacia del licenziamento ai sensi di una legge precedente del 1966, ma soprattutto regola il reintegro, che è uno dei punti politici che interessano gli imprenditori. “Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n.604, il giudice con la sentenza con cui dichiara l’inefficace licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, “ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione si deve dunque pensare alla composizione dell’industria italiana e ricordare che ci sono delle eccezioni nell’applicazione nelle imprese cosiddette di “tendenza”. Per quanto riguarda la grandezza delle aziende dove si applica lo Statuto dei lavoratori, sempre l’articolo 18 precisa che “ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratti a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo dell unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge e i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale”.
L’articolo 18 stabilisce anche il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore licenziato senza giusta causa, insieme al reintegro e non in alternativa. L’indennità viene commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione.