La devolution è legge dello Stato. Ora cancelliamola con il referendum

Se è vero – e lo è – che il costituzionalismo è il movimento che mira alla civilizzazione della società e dello Stato; se è vero che ha come obiettivi il riconoscimento dei diritti umani e la divisione-diffusione del potere; se è vero che le libertà e l’eguaglianza sono i suoi principi e le sue ragioni; se è vero che ha come nemici l’arbitrio, l’assolutismo, la concentrazione del potere, il privilegio, il dominio, chiunque lo detenga, l’irresponsabilità, l’ingiustizia, il disconoscimento di ogni forma di solidarietà, allora è vero che le “Modifiche alla Parte II della Costituzione” che il Senato ha approvato si pongono come l’emblema dell’anti-costituzionalismo. Esse, infatti, tendono a rovesciare le conquiste conseguite col processo storico che, originando dalle due grandi Dichiarazioni del secolo dei lumi, quella che proclamò l’Indipendenza delle Colonie inglesi d’America e quella che, per la Francia e per il genere umano, riconobbe i “diritti naturali, inalienabili, sacri dell’uomo e del cittadino” il 26 agosto 1789, ha raggiunto il punto più alto della sua ascesa nelle Costituzioni europee del secondo dopoguerra. È la massima condanna che può immaginarsi per una normativa che pretenderebbe di qualificarsi come costituzionale. Ma i motivi di questa condanna sono inconfutabili.
Una prima ragione è nell’arbitrio con cui si usurpa il potere costituente. La Costituzione conferisce ai due rami del Parlamento la funzione di revisione delle sue disposizioni, cioè il potere di modificare articoli, istituti, parti anche importanti, come il procedimento di formazione delle leggi, il sistema degli atti normativi (leggi, regolamenti), la distribuzione delle materie di competenza tra Stato e regioni, la composizione del Parlamento (monocameralismo o tipo di bicameralismo), la distribuzione della giurisdizione, eccetera. Non attribuisce però ai due rami del Parlamento il potere di mutare contemporaneamente e radicalmente l’intera strutturazione del potere statale, tutte le istituzioni centrali e territoriali, Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Regioni, e le funzioni che spettano a questi organi, quella legislativa, esecutiva, di revisione costituzionale. Tanto meno attribuisce il potere di distorcere queste istituzioni e queste funzioni, di rovesciare il senso, lo spirito del disegno fissato in Costituzione, di mutare il tipo di regime, cioè la forma di democrazia sottesa alle norme costituzionali.
Ed è proprio tutte queste cose insieme che si ritrovano nel testo approvato in ultima deliberazione dal Senato. Si trasforma la forma di governo, si introduce il premierato, che però con la forma di governo che vige in Inghilterra non ha nulla a che fare. In quel sistema, il “premier” esercita poteri molto estesi ed incisivi, ma intanto ed in quanto è leader del partito di maggioranza.
Il potere che esercita è di esclusiva derivazione parlamentare, egli lo esercita in quanto glielo conferisce il Parlamento e, per esso, la maggioranza parlamentare e, per questa, il partito di appartenenza dei deputati della maggioranza. Si è premier in quanto si è leader del partito che ha vinto le elezioni. Se il partito di maggioranza cambia il suo leader, il premier non resta nell’incarico un solo minuto. In Italia si dice di voler mutuare quel modello, ma ne manca il presupposto, che è bipartitismo, che in Italia non c’è mai stato e, checché se ne scriva e se ne dica, non ci sarà mai. Lo si vuole, allora, introdurre artificiosamente. Si attribuisce perciò al “premier” con norma costituzionale i poteri che avrebbe se fosse leader del partito di maggioranza. Ai presupposti politici si sostituiscono presupposti normativi il cui costo è però enorme. È il costo della concentrazione nella sua figura del potere di governo, di quello parlamentare e di quello del capo dello Stato. Perciò si interviene sulla conformazione del Parlamento, in due modi. Sottraendo al Senato ogni potere nei confronti del Governo, privandolo di un ruolo sostanziale in ordine alla legislazione, perché ogni volta che intendesse discostarsi dall’orientamento del Primo ministro, sarebbe costretto o a piegarsi alla sua volontà o a vedersi sottratto il potere di decidere dei contenuti di una legge perché le verrebbe sottratta e assegnata alla Camera per la decisione definitiva. Trasformando la Camera dei deputati, che viene ad assumere il potere legislativo generale, in una accolita di esecutori della volontà del premier, in suoi fiduciari. Infatti trasferendo dal Presidente della Repubblica al premier il potere di sciogliere la Camera quando vuole, l’ubbidienza dei deputati di maggioranza al volere del premier diverrà piena, rigorosa, indefettibile. Per la verità èprevista anche la possibilità che la Camera “sfiduci” il Primo ministro, ma con un effetto che raggiunge il colmo dell’insulto al principio della rappresentanza popolare, quello del suo scioglimento automatico. Un diritto quindi il Parlamento lo acquista, quello di suicidarsi.
Gli effetti complessivi di questa forma di governo sono disastrosi. Si pensi alla funzione legislativa. A regime, questa forma di governo, con una rappresentanza parlamentare ridotta a funzione ausiliaria del Primo ministro, ad attività servente la sua volontà da trasfondere nella legislazione, le leggi risulteranno essere volizioni di una sola parte politica, del titolare di un organo solo. Non saranno più, questi atti, l’espressione della democrazia perché non ne avranno neanche più la parvenza, con un’opposizione defraudata di ogni potere, una volta che la rappresentanza risulterà compressa, svuotata, convertita in esecuzione dei dettami di uno solo degli eletti.
È stato definito assoluto, questo tipo di premierato, ma la realtà è ancora più allarmante. Con la sua assunzione nella Costituzione si afferma un regime politico che può definirsi solo con il termine di monocrazia, il governo di un uomo solo.
E che dire della cosiddetta “devolution”?
Due delle materie che vengono deferite alla competenza esclusiva delle regioni sono quanto mai indicative della ideologia ispiratrice del federalismo leghista, quello delle regioni e delle classi agiate. Sono materie che attengono a diritti sociali, quello all’istruzione, il più antico e quello all’assistenza e organizzazione sanitaria. Per
tutti é due questi diritti le prestazioni da offrire, per assicurarne il godimento, non possono subire differenziazioni perché violerebbero il principio di eguaglianza e porrebbero in discussione la loro stessa effettività. Vengono invece lasciate alla differenziazione, alla violazione del principio di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione oltre che a quello dell’articolo 3. Si dimostra così quanto falsa e bugiarda sia stata la tesi della indifferenza delle modifiche della Parte Il della Costituzione sulla vigenza dei principi supremi della Carta.
Una ragione in più e definitiva per opporsi a questo testo scellerato. Una ragione in più per mobilitarsi a difesa della Costituzione repubblicana. Nel referendum e dopo. Sì, anche dopo: contro il revisionismo costituzionale da qualunque parte provenga. Sperando che si sia appreso, a sinistra, che il revisionismo costituzionale ha una sola matrice ed un solo obiettivo, quello di liquidare le conquiste di civiltà raggiunte dal costituzionalismo democratico.