Oggi è il gran giorno: i 126 milioni di brasiliani dovranno tornare alle urne e sciogliere l’incognita fra Lula da Silva e Geraldo Alckmin che il primo ottobre scorso sono arrivati rispettivamente al 48.6% e al 41.6%.
Se questa volta i sondaggi ci azzeccheranno, Lula stravincerà. Tutte la inchieste gli danno un vantaggio enorme, fra i 20 e i 25 punti. Alckmin deve aggrapparsi solo alla speranza di un coup de theatre dell’ultimo minuto, come fu alla vigilia del primo turno l’esibizione reiterata sulle prime pagine dei media e dei network televisivi – tutti pervicacemente ostili a Lula – della montagna di dollari e reais che avrebbero dovuto servire a gente del Pt per l’acquisto di dossier scottanti su José Serra, il candidato «socialdemocratico» (eletto a valanga) a governatore dello stato di San Paolo, e forse sullo stesso Alckmin, che del poderoso stato paulista era il governatore prima di mettersi nella corsa per il palazzo dell’Alvorada a Brasilia. Non è stato certo l’ultimo dibattito fra i due concorrenti, ieri sera sull’ammiraglia delle tv brasiliane, la Rede Globo, a spostare voti in modo significativo.
Nelle quattro settimane di campagna supplementare, eliminati dalla corsa i due concorrenti “a sinistra” di Lula – entrambi ex del Pt: la pasionaria Heloisa Helena e il moderato ma ugualmente avvelenato (con qualche ragione) Cristovam Buarque – il presidente-candidato non ha commesso di nuovo l’errore di disertare i dibatti televisivi, come del resto aveva fatto il presidente Fernando Henrique Cardoso nel ’98 quando da presidente si presentava alla rielezione. Questa volta Lula ha partecipato a tutti i quattro in programma: sulla Bandeirantes, sulla Record, sulla Sbt e ieri sera sulla Globo.
Gli sono serviti a rovesciare il tavolo. Perché Alckmin, accusato di essere troppo soft nella sua campagna in vista del primo voto – lo chiamavano il chuchu, il legume più insapore sulla tavola brasiliana – ha cercato di cambiare registro, picchiando con estrema aggressività sul chiodo della corruzione e degli scandali che hanno costellato il primo mandato di Lula e il suo entourage di governo e di partito. Un’aggressività che non gli ha giovato, a cui il presidente-candidato ha risposto con le armi dell’ironia e delle conquiste economiche e soprattutto sociali per i 60 milioni di poveri ottenute nei quattro anni dal «primo presidente di estrazione popolare e di sinistra» nella storia del Brasile.
Schematizzando si può dire che il secondo round si è combattuto sullo scontro corruzione-contro-privatizzazione. Con Alckmin, il candidato delle destre vecchie e nuove (la «socialdemocrazia» neo-liberista) a battere sulle malefatte «etiche» dell’amministrazione uscente – che sono state molte e grosse – e Lula a rispondere con la tendenza naturale del Psdb (Cardoso, Serra, Alckmin…) a privatizzare tutto ciò che ha un valore economico: «Non sanno fare altro che vendere quello che gli altri hanno prodotto».
Il «rischio Alckmin» sembra essere stato molto più efficace dei discorsi sull’«etica» perduta per strada da Pt di Lula e avere spaventato una buona fetta dell’elettorato che al primo turno aveva voltato le spalle, deluso, al leader del Pt.
Qui – sempre che, ripetiamolo, i sondaggi questa volta si dimostrino azzeccati e siano infondate le speranze dell’ex-presidente Cardoso quando cita il caso dello spagnolo Aznar, dato favorito e inaspettatamente sconfitto da Zapatero nel 2004 – Alckmin ha perso la partita. Perché il Brasile è rimasto scioccato dall’ondata privatizzatrice degli anni ’90, quando Cardoso privatizzò l’elettricità, le telecomunicazioni, l’industria aerea, la grande compagnia mineraria Vale do Rio Doce. Alcuni di quei servizi sono indubbiamente migliori oggi che dieci-quindici anni fa ma, come per i telefoni, anche le tariffe sono aumentate in misura esponenziale. E su tutto grava l’ombra di colossali ruberie – al cui confronto quelle attribuite al Pt di Lula sono spiccioli – che accompagnarono quel processo: dove sono finiti gli almeno 98 miliardi di dollari che le privatizzazioni portarono alle casse dello Stato?
L’ombra di Cardoso, che gode di un «indice di rigetto» senza pari, ha pesato sul Alckmin. Sarà anche vero che lui non l’ha detto di persona, ma la sua pratica come governatore paulista e le dichiarazioni d’intenti di alcuni dei suoi più stretti consiglieri economici – come Mendonça de Barros e Yoshiaki Nakano – gli sono state fatali. Loro hanno battuto molto sulla necessità di «tagliare le spese statali» (quindi di licenziare o precarizzare gente) e di riprendere le privatizzazioni mancanti – la sacra Petrobras, il Banco do Brasil, la Caixa economica federal, le poste – e poco è servito all’uomo dell’Opus Dei giurare che questo non stava nel suo programma.
Il «rischio Alckmin» ha funzionato. Non solo per quell’enorme fetta di elettorato povero del nord-est e del nord che aveva già votato in massa per Lula il primo ottobre. Ma anche in quella consistente frangia – quantificabile intorno al 10% – che un mese fa ha scelto il voto di protesta a sinistra, per Heloisa e per Buarque. La pasionaria nordestina, ora leader di un partito a sinistra di quel Pt da cui è stata espulsa nel 2003 – il Psol – aveva avuto allora il 6.7% dei voti (con un clamoroso picco del 17% nello stato di Rio de Janeiro) e aveva subito detto che lei mai e poi mai avrebbe votato per «la cricca criminale» che guida il Pt e il suo capo che è Lula. L’ex ministro dell’istruzione, che è entrato nel Pdt – il partito vagamente laburista dell’ex caudillo Leonel Brizola – sembrava molto tentato di dichiarare il suo voto per Alckmin. Ma la gran parte dell’elettorato del Psol e del Pdt non sembra che oggi seguirà l’ostilità o la neutralità dei loro leader. E tornerà all’ovile di Lula di fronte al «rischio Alckmin».
Il candidato delle destre e dell’Opus, dopo aver avuto un risultato migliore del previsto nel primo turno e aver costretto il suo avversario al ballottaggio, si era lasciato andare a dichiarazioni bellicose, del tipo «Lula è scoppiato» e «praticamente sconfitto». Per fortuna Lula e i leader a lui più vicini – il ministro per i rapporti istituzionali Tarso Genro, la ministra della casa civile Dilma Rousseff, il nuovo governatore dello stato di Bahia Jaques Wagner, il nuovo ministro delle finanze Guido Mantega, l’ex governatore del Cearà Ciro Gomes – subentrati alla «mafia paulista» del Pt falcidiata dagli scandali, hanno girato la barra a sinistra politicizzando al massimo la campagna, sia nella politica interna sia nella politica internazionale. Sono riusciti a mettere in pratica quel che si leggeva nel documento approvato dall’esecutivo nazionale del Pt del 5 ottobre: «Una campagna politicizzata che renda chiaro che nel secondo turno si confronteranno due progetti di paese, uno conservatore e neo-liberista, l’altro democratico e popolare».
Ora la campagna è giunta al termine, aspra, spregiudicata ed estremamente polarizzata: i due Brasile contrapposti sul piano economico, politico, sociale, geografico e di classe; gli scambi di accuse pesanti e anche rozze (Lula e il Pt «gli epigoni di Goebbels», Alckmin «il nuovo Pinochet»…). Tutto induce a credere che Lula ce la farà. Da domani si vedrà se poi «il primo presidente di estrazione popolare e di sinistra» nella storia del Brasile saprà recuperare nel secondo e ultimo mandato l’etica politica perduta per strada e il desenvolvimentismo economico sacrificato sull’altare dell’ortodossia neo-liberista.