La crisi del sistema rappresentativo contribuisce alla messa in mora dei diritti. Se il berlusconismo si è affermato avvalendosi del primato ideologico della governabilità, la traduzione elettorale in chiave maggioritaria ha poi completato il quadro. Ma da questo punto di vista non basta il ritorno al proporzionale. Bisogna fornire ai cittadini nuove forme di controllo e partecipazione. Anche sul piano fiscale
Nessuna obiezione ho da muovere al «temario» dell’Assemblea del 15 gennaio. Una esplicitazione però è bene chiedergliela e, comunque, proporla. Riguarda la formula «rapporto democrazia-diritti» che mi sembra piuttosto ellittica. Che ambedue i termini di questo rapporto implichino la questione della rappresentanza politica è certo. Ma credo che tale questione debba essere nominata come tale. E non soltanto perché si identifica con un pilastro della democrazia di cui possiamo disporre che è quella rappresentativa (altre non ce ne sono a portata di mano) ma perché nell’attuale fase dell’andamento delle istituzioni nel nostro paese, e anche nell’Unione europea, la democrazia rappresentativa è proclamata, ma non è verificata, la si suppone, la si immagina, ed è divenuta, invece, molto problematica. È bene essere molto franchi e molto netti, innanzitutto tra noi, se vogliamo esserlo poi con i partiti e le formazioni politiche con cui va costruita l’alternativa al centro destra. Senza infingimenti insensati, senza diplomazie pelose, ipocrisie dannose, rifiutando il ricatto di uno spirito unitario non esigibile, si dovrà porre la questione di quale democrazia vogliamo, per quale democrazia dobbiamo batterci. È necessario sapere (e dichiarare) se si vuole sradicare definitivamente dalle istituzioni il virus del populismo, del plebiscitarismo, della personalizzazione e privatizzazione del potere o se, invece, se ne vogliono neutralizzare solo le esasperazioni, gli eccessi, le degenerazioni. Quelle da cui derivano elezioni-investiture, maggioranze blindate, governi forti e autoritari perché eletti direttamente, in nome della democrazia cosiddetta «immediata», e automaticamente svincolata da regole e da controlli, o cosiddetta decidente, e perciò recidente domande politiche e bisogni sociali.
Una riflessione sul decennio trascorso va fatta, una riflessione critica sui fattori che hanno prodotto il «berlusconismo». Tra questi si staglia, per la sua preponderante incisività, la martellante propaganda antiparlamentare e antipolitica, che, delegittimando la Costituzione antifascista e con essa la rappresentanza politica, originata e fondata sulla partecipazione diffusa ai partiti politici, promosse l’esaltazione della governabilità comunque esercitata e la legittimazione della concentrazione del potere nell’organo investito della funzione di governo. Insomma, tra le molte concause del berlusconismo, la più devastante delle credenze e delle coscienze è stata l’ideologia infusa per ottenere l’adesione al bisogno di un capo, da eleggere per offrirgli, incontrastato, il massimo del potere politico, quello che comprende anche il controllo diretto e indiretto della comunicazione televisiva. Questa sorta di lobotomia al cervello della nazione di quelle fibre che reggevano l’autonomia e la partecipazione di massa alla politica è alla base, è il fondamento del berlusconismo. Va detto. Ricordandolo a chi, a sinistra, per aver prima introitato questa ideologia, partecipò poi, per insipienza o ignoranza, all’operazione praticata sulla coscienza popolare, fornendo i mezzi necessari ai chirurghi che nel `93, drogando l’elettorato, amputarono la democrazia italiana dei suoi mezzi di espressione e di potere.
Imbroglio maggiortario
Mi si obietterà che rivendico la necessità democratica della proporzionale. Non ho nessuna remora a riconoscerlo. Mi capita, e non per caso, di credere all’eguaglianza del voto, eguaglianza da assicurare in partenza e in arrivo. Credo, cioè, che il diritto alla rappresentanza spetti a tutti e non soltanto all’elettore, o all’elettrice, che indovini quel tale candidato nei collegi uninominali che riuscirà a ottenere un voto in più di ciascuno degli altri candidati. Credo che se un elettore o un elettrice non indovina, non perciò debba perdere il diritto a essere rappresentato/a, o di esserlo da chi ha considerato interprete di interessi opposti ai suoi o di professare idee che detesta. E non si dica che il sistema maggioritario è esattamente quello delle democrazie che ne incarnano perfettamente l’essenza, quelle anglosassoni, perché non è vero che la incarnino, se la partecipazione al voto in quei sistemi è, nella migliore delle ipotesi cioè non frequentemente, di poco superiore al 51% degli elettori, il cui numero, negli Usa è di gran lunga inferiore a quello degli aventi diritto e in Gran Bretagna, quel quorum, va precipitando. Né si dica che solo il sistema maggioritario consente l’alternanza perché non è vero, come dimostrano da un secolo e più le democrazie scandinave, da cinquant’anni la democrazia tedesca, e da più di trent’anni quella spagnola. Né si dica che quello vigente in Italia sia conforme ai principi di libertà, perché neanche questo è vero, visto che è un sistema che comporta, per un partito o gruppo politico che vuole essere rappresentato, la coazione alla coalizione, e non certo libertà di elettorato attivo e passivo. Così come il sistema maggioritario non comporta certo omogeneità politica nei coalizzati a governare, come dimostra l’esperienza del decennio, che da tre anni maschera crisi mistificate con sostituzioni anche reiterate di ministri nei dicasteri più rilevanti, immissioni di vicepresidenti del consiglio e sottosegretari come compensi miserabili di sconfitte politiche subite sulle linee dell’indirizzo politico di governo. Ha comportato invece una legislazione ad personam che è esemplare per devastazione dei postulati dello stato di diritto, del senso di giustizia, e rottura degli equilibri istituzionali, cui si è aggiunta un’azione di governo che ha determinato e determina il declino industriale, sociale ed economico del paese.
Diritti e doveri
Le considerazioni che precedono non mirano però a nascondere la crisi che ha colpito la rappresentanza politica a seguito di quella subita dai partiti come luoghi della partecipazione di massa, cui si è aggiunta la collocazione delle scelte politiche in norme irrigidite e in sedi irraggiungibili. Mirano invece a sollecitare l’attenzione sul come affrontare tale crisi, sui modi attraverso cui la rappresentanza può rafforzarsi, integrandosi in forme tali da richiamare la presenza di chi non può assicurarla permanentemente nei luoghi in cui si decide, per esempio, sui diritti, specie se sociali. In ultima istanza, è il costo di questi diritti che ha determinato la crisi dello stato sociale e della democrazia costruita nel secolo breve. E ben sappiamo che alla crisi della democrazia si deve rispondere non con meno ma con più democrazia. Non abbiamo altra arma.
Sappiamo anche altre cose. Che tutti i diritti, non solo quelli sociali, sono garantiti mediante l’istituzionalizzazione organizzata di servizi pubblici sostenuta dai tributi fiscali. Sappiamo pure di una conquista di civiltà, sancita dalle costituzioni ancora in vigore negli stati europei, secondo cui tutti i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione delle proprie capacità contributive e secondo criteri di progressività delle imposte. Sappiamo pure che, in quanto tali, tutti i cittadini, sono contribuenti, per via dell’imposizione diretta e indiretta, e contemporaneamente titolari di una frazione di sovranità che specifica il fondamento della democrazia. Perché allora non ipotizzare che i cittadini stessi, integrati nel corpo elettorale, con atto autonomo da quello elettivo, anche se contestuale e rinnovabile a metà della legislatura, in un contesto istituzionale che favorisca il dibattito e non neutralizzi il pluralismo culturale e politico, diventino titolari del potere di decidere la destinazione delle entrate fiscali, raggruppate in alcuni aggregati di spesa, secondo proposte formulate dalle parti politiche e controllate da organi di garanzia effettiva e credibile, nettamente autonome da ogni altro potere?
Poteri fiscali
La rappresentanza parlamentare non sarebbe espropriata di funzioni decisive in materia finanziaria e di bilancio, conserverebbe il potere di fissare i gradi di capacità contributiva, i caratteri specifici del sistema tributario, la misura della progressività delle imposte, le forme di combinazione tra quelle dirette e quelle indirette. Non solo. Ma per evitare che una decisione necessariamente maggioritaria del corpo elettorale possa direttamente o implicitamente colpire una parte della cittadinanza, l’ambito della decisione popolare andrebbe determinata in modo da riguardare una parte delle entrate complessive, che potrebbe essere proporzionalmente non inferiore a quella dei voti espressi, o alla metà della somma globale delle entrate. Resterebbe integro il potere della rappresentanza parlamentare di compensazione e di mediazione tra gli interessi emersi dalla consultazione. Si innesterebbe proprio sulla rappresentanza parlamentare la funzione di raccogliere le istanze concretamente espresse dal corpo elettorale in ragione di una democrazia attiva e vissuta e proiettarle in sede Ue, per il tramite dei membri del governo che fanno parte delle istituzioni dell’Unione, opponendole a quelle astrattamente autoritariamente inglobate in norme mai sottoposte a un reale giudizio popolare.
Tanto aperta alla discussione vuole essere la proposta, sommariamente indicata, per integrare la rappresentanza, quanto netta e decisa è quella di ridefinirla, depurandola dalla personalizzazione, dal populismo, dalla coazione da cui è stata contaminata.