La democrazia parlamentare sottosopra

Si avvicina il giorno della verità per la Costituzione italiana. La destra spinge per approvare nei prossimi giorni un cambiamento profondo della seconda parte della nostra Carta fondamentale. Se il Senato approverà il testo inviatogli dalla Camera senza modifiche, come purtroppo tutto lascia prevedere, non ci sarà spazio per ulteriori cambiamenti. Nei prossimi mesi infatti la maggioranza potrà decidere se e quando far approvare in seconda lettura la sua legge, non saranno più possibili emendamenti, ma solo l’appello al popolo: il referendum che l’Unione si è già impegnata a chiedere. Quando poi questo referendum si terrà non è ancora possibile sapere, perché se farlo prima o dopo le elezioni politiche, ancora una volta, è nelle mani della destra che controlla i tempi dell’agenda parlamentare. Non c’è ancora adeguata consapevolezza della gravità dello stravolgimento della Costituzione voluto dal governo. Il nocciolo duro della cosiddetta riforma risiede nello sconvolgimento dell’equilibrio tra le istituzioni democratiche, attraverso la concentrazione nel «primo ministro» (nuovo nome dato al presidente del consiglio) di un grande numero di poteri, sottratti agli altri soggetti istituzionali. Si introdurrebbe a livello nazionale un sistema simile a quello già operativo per i cosiddetti governatori delle regioni.

Nessun sistema democratico moderno è costruito in questo modo. Nelle democrazie presidenziali il Presidente della Repubblica è Capo del governo, eletto direttamente dal popolo, ma il Parlamento ha la sua autonomia, non può essere sciolto dall’esecutivo ed è libero di votare o di non votare le leggi proposte dal governo. Nelle democrazie parlamentari, il Capo del governo è espresso dalla maggioranza parlamentare, che può cambiarlo se lo ritiene; le Camere possono essere sciolte se così decide un organo terzo, come il Capo dello Stato, ovvero la stessa maggioranza parlamentare; ma non possono essere sciolte d’autorità dal primo ministro. Con il sistema voluto dalla destra si unisce il peggio dei due sistemi: il Capo del governo eletto direttamente dal popolo che poi controlla le Camere e ne decide le scelte principali in base al potere di ricatto che gli deriva dalla facoltà di imporre, pressoché senza limiti, lo scioglimento del Parlamento.

In una parola, un vero e proprio capovolgimento della democrazia parlamentare: sono le Camere a dover aver fiducia del capo del governo e non viceversa! In questo modo si traduce in regole istituzionali la concezione plebiscitaria e populistica fatta propria da Berlusconi fin dalla sua «scesa in campo»: il capo eletto dal popolo non deve trovare nessun ostacolo alla sua azione: non dal Parlamento, e nemmeno dal Presidente della Repubblica (al quale vengono assegnate funzioni poco più che cerimoniali), dalla Corte costituzionale (la cui composizione e modalità di elezione vengono manipolate), per non parlare della magistratura, alla quale la destra sta provvedendo con una legge sull’ordinamento giudiziario per più versi incostituzionale, tanto che il Presidente della Repubblica l’ha rinviata per questa ragione al Parlamento.

L’altro pezzo, non meno grave, della controriforma voluta dalla destra, è la cosiddetta devolution, che attribuisce alle regioni competenze esclusive in materia di scuola e di sanità, incrinando così in modo grave il principio di eguaglianza dei diritti sociali per tutti gli italiani, e creando le premesse per un ulteriore peggioramento delle disuguaglianze di fatto a danno del Mezzogiorno. E’ facile intendere che siamo di fronte ad una alterazione della nostra Carta fondamentale che finisce per incidere sui diritti e sui principi, che pure formalmente non sono messi in discussione, contenuti nella prima parte della Carta fondamentale. Come bene ha spiegato Luigi Ferrajoli, siamo in presenza non di una semplice «revisione» come quella di cui parla l’articolo 138 della Costituzione, ma della stesura di un nuovo testo: al punto che Giovanni Sartori ha parlato di «Costituzione incostituzionale!».

Sarà ormai quasi certamente il referendum finale la prova decisiva nella quale gli italiani dovranno impedire con il loro voto la messa in discussione di principi fondamentali della democrazia italiana. Ma perché sia misurata fino in fondo la gravità di quello che sta accadendo e l’esigenza di reagire, occorre a mio avviso una revisione profonda, nel centro-sinistra, rispetto alla leggerezza con la quale, nel decennio che abbiamo alle spalle, si è giocato con la Costituzione.

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Va detto con chiarezza che il problema della democrazia italiana non è in un preteso deficit di governabilità, ma in un deficit di legittimazione e di consenso, e si deve quindi tornare a valorizzare le assemblee elettive, a cominciare dal Parlamento, e la partecipazione diretta dei cittadini. Va detto con chiarezza che l’unità nazionale, e non il federalismo, può garantire riforme economiche e sociali che assicurino più avanzate tutele dei diritti sociali a tutti gli italiani. L’Unione è chiamata quindi a indicare una chiara alternativa di merito alla destra anche sulla questione delle istituzioni, perché la mobilitazione dell’opinione pubblica oggi, il referendum domani, consentano ai cittadini di intendere chiaramente che la posta in gioco è la qualità della democrazia italiana nei prossimi decenni.

Cesare Salvi – Vicepresidente del senato, Ds