Alexis de Tocqueville, 180 anni dopo il suo viaggio in America, ha deciso di visitare l’Europa dei nostri giorni. Siamo felici di poter offrire ai nostri lettori, in esclusiva, le sue impressioni.
Fra le cose nuove che hanno attirato la mia attenzione durante il mio soggiorno in Europa, una soprattutto mi ha colpito profondamente, ed è la particolarità del sistema politico.
In Europa c’è un Parlamento che ha tre sedi ma non elegge alcun governo.
C’è un’Unione tra Stati, in cui i poteri di governo sono suddivisi in maniera piuttosto incerta tra una Commissione con membri designati dai governi nazionali e un Consiglio Europeo formato dai presidenti del Consiglio dei governi nazionali.
C’è infine – e secondo un’opinione diffusa si tratta dell’istituzione più importante – una Banca Centrale indipendente dai governi, i cui membri sono però nominati in base ad un accordo tra i governi.
Questa Unione ha provato a dotarsi di una vera e propria Costituzione. Ma negli unici due Stati membri in cui è stata sottoposta al voto popolare, essa è stata sonoramente bocciata. Quindi al posto di una Costituzione c’è ora un semplice Trattato, che però contiene le stesse cose.
Una parte degli Stati che compongono questa Unione si è dotato di una moneta unica, un’altra parte no.
Sarebbe logico pensare che almeno gli Stati dotati di una moneta unica abbiano anche una politica economica integrata, stesse tasse, diritti sociali omogenei, un comune minimo salariale, un sistema di ridistribuzione della ricchezza dalle aree ricche verso le aree povere. Invece non è così. Tant’è vero che alcuni Stati dell’Unione, oggi in grave difficoltà con i loro conti pubblici, sono riusciti soltanto a ottenere dall’Unione che la Banca Centrale compri un po’ dei loro titoli di Stato da alcune banche private, e che l’Unione presti loro dei soldi a un tasso d’interesse piuttosto elevato (anche se inferiore a quello richiesto da altri investitori).
Certo – direte voi – questi sono problemi seri, ma è comunque una buona cosa che, pur avendo una moneta unica, ogni Stato dell’Unione mantenga la sua sovranità su tutto il resto. Ma le cose, in verità, non stanno in questi termini. Intanto, gran parte della legislazione nazionale (c’è chi dice l’80 per cento) è ormai diretta emanazione di leggi stabilite a livello dell’Unione, che gli Stati non possono fare altro che recepire nei propri ordinamenti. In molti casi non c’è neppure bisogno di un recepimento formale: le leggi decise dall’Unione entrano subito in vigore in tutti gli Stati membri.
Per quanto riguarda poi lo Stato più indebitato e in difficoltà – la Grecia – la situazione è ancora peggiore: esso ha infatti potuto ottenere i prestiti dall’Unione, nel maggio dello scorso anno, alla condizione di cedere la propria sovranità sulla politica fiscale e sulle politiche del lavoro. Da allora è un sorvegliato speciale del creditore, che può dettargli ulteriori condizioni se le cose non vanno come dovrebbero: nel febbraio di quest’anno, ad esempio, la Commissione gli ha chiesto di privatizzare parti del patrimonio statale per un valore di 50 miliardi di euro. Un portavoce di quello Stato si è molto offeso: “Noi accettiamo ordini soltanto dal popolo”, ha detto. Ma il mese successivo il suo governo ha deliberato privatizzazioni per un valore di 50 miliardi.
In un altro Stato – il Portogallo – la crisi ha causato elezioni anticipate ma, a giudizio di tutti, il programma di governo di chiunque fosse uscito vincitore dalle elezioni non avrebbe potuto discostarsi dalle condizioni fissate dall’Unione per concedere un prestito: aumento di tasse, riduzioni dei salari, limiti più stretti alle prestazioni sociali e in particolare sanitarie, rincari sui trasporti. Precisamente quanto sta facendo il nuovo governo appena eletto.
Mentre scrivo queste note, la situazione dello Stato più in crisi dell’Unione sta peggiorando a vista d’occhio e nessuno sembra in grado di risolverla. Fra l’altro su quello che si dovrebbe fare la Banca Centrale ha idee molto diverse da quelle della Commissione e da quelle di alcuni presidenti del Consiglio degli Stati membri più potenti (quelli che – informalmente – impongono la loro linea agli altri), e questo complica le cose. Diversi economisti, tra cui il premio Nobel Paul Krugman, ritengono che sia stato sbagliato affrontare la crisi imponendo agli Stati in difficoltà forti tagli di bilancio, ma questo è proprio l’unico punto su cui Banca Centrale e Commissione sono pienamente d’accordo. In ogni caso, cosa piuttosto sorprendente, su questo tema non sembra avere luogo un dibattito politico pubblico negli Stati dell’Unione. Ci sono, è vero, molte manifestazioni di piazza, ma questo non sembra minimamente in grado di modificare gli intendimenti di coloro che decidono i destini dell’Unione.
Quando scrissi La democrazia in America, il mio maggiore timore era che la democrazia potesse portare a una “tirannide della maggioranza”. Devo ammettere il mio errore: nell’Europa di oggi questo pericolo è scongiurato. Nel 1998 un banchiere tedesco, il signor Tietmeyer, ha osservato che con l’avvio della moneta unica in Europa i governi nazionali avevano scelto di lasciare agli “esperti monetari” poteri di grande importanza: di fatto – disse – si trattava di privilegiare “il permanente plebiscito dei mercati mondiali” rispetto al “plebiscito delle urne”, molto più rozzo e incompetente. Mi sembra che le cose vadano sempre più in questa direzione, anche se a dire il vero in questi ultimi anni “esperti monetari” e “mercati” non hanno sempre brillato per acutezza di giudizio.
Mi resta un dubbio di natura diversa: non sono affatto sicuro che per definire tutto questo sia corretto adoperare il termine di “democrazia”.
*Testo raccolto con la macchina del tempo da Vladimiro Giacché