La democrazia in America secondo Eugene McCarthy

Aveva detto una volta Eugene McCarthy: «l’unica cosa che ci salva dalla burocrazia è l’inefficienza. Una burocrazia efficiente è la più grande minaccia alla libertà». La sua campagna elettorale del 1968 resta nella memoria come un esempio di antiburocrazia (non direi di inefficienza: fu decisiva nell’indurre Lyndon Johnson a ritirarsi). Completamente fuori dalla tradizionale macchina elettorale democratica, Mc-Carthy diventò il punto di riferimento entusiastico di migliaia di ragazzi e ragazze impegnati nel movimento per porre fine alla guerra del Vietnam. “Clean for Gene” era lo slogan: accorciarsi i capelli, tagliarsi la barba per presentarsi “puliti” a cercare i voti per l’ultimo candidato che abbia lasciato intravedere negli Stati Uniti la possibilità di una politica nazionale partecipata, non separata dai cittadini e dai movimenti. Quando la macchina burocratica del partito democratico lo tagliò fuori dalla competizione elettorale (poi disastrosamente persa da Humphrey contro Nixon), la delusione si trasformò in rabbia, e la protesta di massa fu repressa a Chicago con indiscriminata violenza poliziesca. Nato nel 1916 in Minnesota, Eugene McCarthy era una voce della tradizione politica “liberal” di quel Nordovest americano intriso di immigrazione scandinava. Aveva combattuto in guerra, insegnato sociologia, e sistematicamente appoggiato le cause progressiste prima nella Camera dei deputati e poi nel Senato. Nel 1967 aveva scritto un libro il cui titolo parla ancora al presente, The limits of power; fino ai suoi ultimi giorni ha preso posizione contro le pretese di illimitatezza del potere imperiale. Dopo l’esclusione dall’elezione presidenziale, si ritirò dalla politica; provò a candidarsi di nuovo al Senato un paio di volte, senza troppo crederci, ma rimase ai margini. Non rimase in silenzio, però: ancora negli ultimi anni, le sue prese di posizione sulla guerra in Irak sono state chiare e taglienti. Nel 1967, aveva detto: «Il prestigio di una nazione dipende dai suoi meriti. Il contributo dell’America alla civiltà del mondo dev’essere qualcosa di diverso da una permanente dimostrazione della nostra capacità di essere i poliziotti del pianeta». Nel 2002, dopo il “Patriot Act”, ha detto: «Alexis de Tocqueville ammonisce che perdi le tue libertà se esageri nel circondarle di barriere difensive. Gli iracheni non ci hanno tolto nessuna delle nostre libertà, ma ce le siamo ridotte da soli». «Sostanzialmente Mc-Carhy era un conservatore», ha scritto su The Nation uno che lo conosceva bene, John
Nichols: «i suoi valori, senso del dovere e responsabilità, sono così rari oggi che sembrano radicali». Il richiamo di McCarthy ai padri fondatori – Washington, Jefferson, Franklin – fa parte di quella tradizione americana che critica la pratica politica e la senso, McCarthy è forse con George McGovern, ma con più fervore uno degli ultimi uomini politici che abbiano cercato ricollegare le istituzioni americane a un senso della politica e a valori ideali: non a caso, ha anche scritto poesia, tutt’altro disporezzabile. Si capisce come mai i giovani contestatori gli sacrificassero barbe e capelli. morale corrente delle istituzioni con un richiamo ai valori fondanti del paese (assunti magari un po’ acriticamente). Ma negli anni Sessanta questo era un tema molto presente anche nei movimenti, che vedevano il Vietnam (come oggi molti l’Irak) non come un punto di arrivo ma come un tradimento della tradizione democratica americana. In questo senso, McCarthy è stato – forse con George McGovern, ma con più fervore – uno degli ultimi uomini politici che abbiano cercato di ricollegare le istituzioni americane a un senso etico della politica e a valori ideali: non a caso, ha anche scritto
poesia, tutt’altro che disporezzabile. Si capisce come mai i giovani contestatori gli sacrificassero le loro barbe e capelli.