La Democrazia dei sapienti

Giustiniano ha avuto un destino storiografico sintomatico. Fu il medesimo storico, Procopio di Cesarea, che mise in circolazione, vivo Giustiniano, numerosi libri di storia che ne esaltano la grandezza, la saggezza, le guerre vittoriose etc., e che però, al tempo stesso, si tenne in serbo – destinata alla circolazione dopo la morte del principe – una Storia segreta in cui Giustiniano viene fatto letteralmente a pezzi e appare come il ricettacolo di ogni nefandezza e debolezza e inutile crudeltà, oltre che vanità nell’ attribuirsi meriti spettanti ad altri. La Storia segreta fu scritta intorno al 558, Giustiniano morì il 14 novembre del 565 a ottantatré anni. Morto lui, la Storia segreta si incaricò di demolire il vincitore dei Goti, il riconquistatore dell’ Italia e restauratore dell’ unità dell’ impero. I moderni possono liberamente oscillare tra i due estremi, come tra i due ritratti di Stalin scritti da Nikita Krusciov: da un lato il rapporto al XIX congresso del Pcus (ottobre 1952) in cui tutto il merito della forza economica, militare, sociale dell’ Urss è attribuito al «nostro amato capo e maestro compagno Stalin», e dall’ altro il rapporto segreto, letto in seduta riservata al XX congresso del Pcus (febbraio 1956), circa tre anni dopo la morte di Stalin. Qui, come nella Storia segreta di Procopio, «l’ amato maestro» è presentato come un tiranno ridicolo, imbelle e sanguinario (tanto da rendere quasi incomprensibile come avesse potuto tanto a lungo e con l’ appoggio di infiniti Krusciov governare). La visione, di matrice tolstojana, mirante a nullificare la «grandezza» delle «grandi personalità» della storia è senza dubbio un buon antidoto alla storiografia eroicizzante. Essa però non riesce a dar conto dell’ intreccio tra meschinità individuale ed efficacia politica. Bene ha fatto dunque Aldo Schiavone nel suo importante saggio Ius, l’ invenzione del diritto in Occidente (Einaudi, pp. 521, euro 40) a porre Giustiniano al centro di quel fondamentale processo di selezione e codificazione del passato che fu il Corpus iuris civilis da lui voluto. Tutti sappiamo che furono Triboniano e i suoi collaboratori a costruirlo, quel «monumento della civiltà occidentale», ma ciò non toglie che l’ intollerante e sanguinario quanto si voglia Giustiniano ne sia stato il motore decisivo e ineludibile. Schiavone addita in un libro il veicolo che ha trasmesso all’ Occidente «l’ indipendenza, neutralità e valore fondante» del diritto: il Corpus iuris civilis, la grande costruzione messa in moto da Giustiniano. «In principio c’ è il testo». Un testo che – scrive – oggi possiamo osservare «da un punto di vista storiograficamente vantaggioso»: quello di «poter osservare finalmente dall’ esterno e da lontano un’ eredità che ci ha condizionato tanto a lungo». Il riferimento è a una tradizione, molto autorevole, che ha continuato a considerare il diritto romano, in tempi ancora a noi vicini, come il diritto tuttora vigente ovvero attuale (secondo la classica formulazione del maggiore «romanista» moderno, Friedrich Carl von Savigny). «Non sembra – nota Schiavone – che finora gli studiosi di diritto romano abbiano saputo approfittare di questa nuova possibilità, presi come sono dalla nostalgia e dal rimpianto per le posizioni perdute. Al contrario noi cercheremo di farlo». Ed è questo il tema fortemente innovativo che attraversa l’ intero volume. Il binomio intorno a cui ruota l’ intera indagine è: Diritto romano e Occidente moderno. «Il diritto – scrive Schiavone – è una forma che ha invaso la modernità, diventandone presto un carattere insostituibile: ed è una forma inventata dai Romani». Ma cos’ è questa centralità del diritto e del ceto che lo interpreta e, prima ancora, lo scrive e lo elabora, se non la risposta – peculiare, originalissima – della città stato romana di fronte all’ istanza ineludibile e urgente prima o poi in ogni città stato antica, cioè l’ istanza democratica? È la scelta di non praticare la democrazia «alla greca» che ha portato al predominio di quel ceto e, soprattutto, del suo sapere. Vi è, in questa scelta, la consapevolezza che qualcosa di ben più ricco e profondo che non l’ oligarchia (cioè lo strapotere dei ben nati e dei bene educati) fosse necessario alla città in opposizione al semplicismo del «governo del popolo» (cioè della democrazia assembleare alla greca). Il dominio della legge e del diritto e il prestigio dei sapienti che lo interpretano si colloca in speculare antitesi alla democrazia assembleare «classica», in cui il popolo è al di sopra della legge. Durante il processo contro i generali vincitori alle isole Arginuse, celebrato direttamente di fronte all’ assemblea popolare, quando sta per affermarsi il principio giuridico secondo cui ogni singolo imputato avrebbe diritto a un giudizio individuale – ciò che potrebbe portare alla salvezza per lo meno di alcuni -, una voce si leva dall’ assemblea e ha efficacia paralizzante, e cambia le sorti dell’ intero processo: «Qui si vuole impedire al popolo di fare quello che vuole!» (Senofonte, Elleniche 1,7,12). E il processo va rapidamente incontro al suo epilogo «omicida». La modernità, in Occidente, ha imboccato la strada che i romani percorsero in alternativa alla «democrazia» dei greci. Ha scelto la strada della limitazione dell’ istanza democratica, grazie al contrappeso rappresentato da ceti decisivi e dotati di competenze tecniche (non più solo giuridiche). Il trionfo, quasi dovunque, in Occidente del «sistema misto» trae di lì le sue remote origini.