La cultura schiava della ripetizione. E’ ora di rileggere Adorno

Siamo installati nel regno della ripetizione e siamo respirati da un ritmo iterativo così costante da sembrare talora un rumore sordo e quasi inavvertibile. Però ci struttura e ci ipno-istruisce, ci forma, insomma, e ci deforma instaurando le nostre irritazioni. La ripetizione come habitat, come videosfera, fonosfera e noosfera, tende a celarsi nella sua mostruosa evidenza. E la ripetizione significa tensione verso l’identità (il “pensiero unico” e la “forma unica”), con il correlato della svalutazione della dissomiglianza. La regione della dissimilitudine è quella diabolica, mentre la somiglianza è il mare delle tranquillità.
Giorni addietro, su queste pagine, Cristian Raimo lamentava la tendenza di certi lettori-redattori delle case editrici a manipolare i dattiloscritti narrativi in funzione di omologazione e approssimazione a modelli prevedibili e controllati; gli scarti stilistici, che la grande critica high modern riteneva qualificanti l’opera d’arte, sono sempre più avvertiti come stonature da correggere. Così uno scrittore come Leonardo Colombati, che col romanzo Perceber aveva proposto una architettura sperimentale di notevole complessità, è salutato ora sul magazine del Corriere della sera come un figliol prodigo che col nuovo romanzo social-realista e con l’outing di destra (incluso encomio a Berlusconi) ha rinunciato agli orrori della difformità e della difficultas. Anche Flavio Santi, sempre su queste pagine, denunciava lo strapotere degli editor, quasi fossero loro, ormai, i veri autori della letteratura.
Da parte sua la critica letteraria nella forma metacritica della riflessione su se stessa ritorna regolarmente a interrogarsi ansiosamente e poi a rispondersi pacificandosi: in fondo siamo bravi, le testate sono piene di gente dalla bella penna, e giù elenchi di amici per esemplificazione (si vedano ad esempio i cataloghi forniti da Cordelli e La Porta su “Alias” de il manifesto ). Il critico, l’artista, deve essere gregario o solitario? Certo, ci sono greggi molto vaste, altre più ristrette, altre radical-chic e idiosincratiche, anzi talmente aristocratiche da non sembrare più greggi. Tuttavia vige il monito “guai all’uomo solo”, e la letteratura, che è studio di solitudine, si trova costretta in un meccanismo di produzione radicalmente gregario e non solitario. Il sistema inclusivo-esclusivo del clan spiana come un rullo compressore ogni forma di meritocrazia. Il rischio, implicito pure nella storia fascista della parola, è quello della mediocrazia.
«Chi non si adegua è colpito da un’impotenza economica che si prolunga nell’impotenza intellettuale dell’isolato. Una volta escluso dal giro, è facile convincerlo di insufficienza». Sono parole di Adorno e Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo , nella sezione centrale del libro dedicata all’industria culturale. A settant’anni dall’edizione di Amsterdam (sostanzialmente la prima, visto che la precedente americana, del ’44, era uscita in ciclostilato col titolo Frammenti filosofici ) è più che mai necessario riprendere fra le mani questo classico della critica della modernità. Oggi soprattutto, perché abbiamo superato i momenti più acuti delle nostre poetiche postmoderniste, quando credevamo nella sublimità delle offese quotidiane, quando sentivamo che la ipertrofia dell’esistente poteva tramutarsi in poesia, quando vedevamo in uno spot pubblicitario o in un micro-universo senza stile un deposito improvvisamente aperto di bellezza per noi che eravamo in grado di suggerla o addirittura di sognarcela. Tutte cose che hanno avuto una loro piena dignità, e che storicizzate saranno pure recuperate con nostalgia, ma che adesso, francamente, mi paiono sorpassate. Ora non si tratta più di valutare esteticamente quello o quell’altro video o jingle. Ora non ne possiamo più di ritrovarcelo continuamente in mezzo, sempre uguale. Ora la sindrome da rigetto dell’identico ci è riesplosa dentro come una febbre furiosa. Il postmoderno non è finito, probabilmente, ma i nostri alibi e le nostre poetiche ci paiono ormai caricaturali.
E allora torniamo a Adorno-Horkheimer e a un libro che fortunatamente Einaudi ha appena ristampato. E segnaliamo anche un proliferare positivo di nuove iniziative editoriali intorno alla figura di Adorno: in primis la preziosa Introduzione a Adorno di Stefano Petrucciani, uscita in questi giorni da Laterza, e poi, a cura sempre di Petrucciani, gli scritti Contro l’antisemitismo per manifestolibri; solo del 2006 era anche l’importante stampa italiana delle lezioni sulla Metafisica , Einaudi, ottimi prolegomeni alla ardua lettura dell’opera capitale, la Dialettica negativa (sempre Einaudi, in nuova edizione ristampata).
La Dialettica dell’illuminismo è certo un’opera così cupamente pessimista sulla propria contemporaneità da sembrare una macchina di distruzione delle speranze, un ordigno per il crollo totale delle illusioni (sarebbe piaciuta a Leopardi?). E infatti fu giudicata addirittura assimilabile a una cultura radicale di destra, paradosso che legge paradossalmente un’opera fondata del resto sulla necessità della contraddizione. Oppure fu più generosamente ma inflessibilmente considerata ingiusta nei confronti del «contenuto razionale della modernità culturale» (parole di Jürgen Habermas). O ancora si sottolinea che la critica del fallimento dell’illuminismo vuole in realtà «portare l’illuminismo alla sua verità, non certo rinnegarlo e rifiutarlo» (S. Petrucciani).
Comunque sia, gli autori erano perfettamente coscienti della natura perfettamente tragica del loro prodotto, anzi, alla domanda sul perché affissarsi così sulla sventura e sull’amarezza e non «proclamare l’amore come principio», essi rispondevano con dolore filosofico che «non il buono, ma il cattivo è l’oggetto della teoria». E a noi il linguaggio tragico dei francofortesi e di Benjamin ci sembra invece proprio quello giusto, quello imprescindibile ancora oggi per fare filosofia che non sia accademia.
Adorno e Horkheimer vedono nella cultura della democrazia occidentale post-totalitaria un perdurare della totalità come omologazione assoluta a scapito del «particolare ribelle», della rivolta, della discrepanza. Lo stereotipo, l’unità dello stile in una forma perversa e beffarda di “classicismo” imitativo, l’identità e la somiglianza al posto del «necessario fallimento della tensione appassionata verso l’identità», soprattutto il dominio della ripetizione: ecco gli elementi costitutivi dell’arte di massa nell’età dell’industria culturale. «Chi, di fronte alla potenza della monotonia, dubita ancora, è un pazzo».
Certo, l’età in cui riflettono Adorno e Horkheimer è ancora pre-televisiva (anche se i due prefigurano perfettamente la beffarda sintesi “wagneriana” futura del mezzo), e sul cinema americano essi formulano giudizi che oggi ci lasciano sconcertati, come le valutazioni sarcastiche e negative su Chaplin o Lubitsch, o la lettura delle trasgressioni di Orson Welles come «scorrettezze calcolate» che addirittura rafforzano «la validità del sistema». Ma sono possibili incomprensioni che si spiegano alla luce acre e stupenda della radicalità della loro critica.
Ed è appunto di una radicalità siffatta che abbiamo bisogno noi oggi. Anche noi dobbiamo far crollare le illusioni, farne strage, e siamo pronti per farlo. Non ci servono più formazioni compromissorie con un reale che sia autoconservazione dell’uguale. E soprattutto: buttiamo a mare la tentazione della furbizia e del danno sempre calcolato. Sappiamo bene che la «celebrata libertà» del mercato si riduceva «nell’arte, come in generale per tutti quelli che non erano abbastanza furbi, a quella di morire di fame». Oggi non moriremo di fame, in questo occidente straricco, a credere nel valore di complessità e differenza. Se stiamo male, guardiamo pure in faccia Medusa, magari soli come cani.