La Croazia più nera festeggia i suoi delitti

Ustascia e fascisti a Knin inneggiano alla sanguinosa pulizia etnica del `95
La cacciata dalla Krajina dei civili serbi – i profughi furono oltre 300mila – si protrasse per una decina di giorni, durante i quali i militari croati saccheggiarono, uccisero, fecero saltare o incendiarono le case dei serbi, massacrando quasi tutti i civili che, per vecchiaia, malattie o altri motivi erano rimasti nelle case

Nel 1991, su un territorio di oltre diecimila chilometri quadrati comprendente le regioni croate della Lika, Kordun e Banija abitate sin dal XV secolo da popolazioni serbo-ortodosse fuggite dai territori invasi dai turchi, fu costituita la secessionista «Repubblica serba di Krajina». Con l’operazione «Tempesta», protrattasi dalle 5 del mattino del 4 agosto 1995 alle ore 18 del 7 agosto, un esercito croato di 150mila uomini invase ed occupò quel territorio, ripulendolo dell’intera popolazione che in interminabili colonne abbandonò i campi, le case, le greggi, ogni bene, perfino i pasti ancora caldi sulla tavola per raggiungere con auto, trattori ed altri mezzi la Bosnia e la Serbia. Molti restarono morti lungo la strada, mitragliati da terra e dal cielo o vittime di sassaiole e linciaggi mentre attraversavano i territori croati. Sul piano militare l’operazione durò 84 ore, ma la cacciata dal territorio delle popolazioni civili – i profughi serbi ammontarono ad oltre 300mila – si protrasse per una decina di giorni, durante i quali i «liberatori» misero la regione abbandonata a ferro e a fuoco: saccheggiarono, uccisero, fecero saltare in aria con la dinamite o distrussero col fuoco le case dei serbi, massacrando quasi tutti i civili che, per vecchiaia, malattie o altri motivi erano rimasti nelle case. Le uccisioni e le distruzioni continuarono per circa due anni. Chi scrive le ha documentate nel suo libro Croazia, Operazione Tempesta, uscito nel 1996 e nella raccolta di testimonianze dei superstiti pubblicate in Storie di profughi e massacri del 2001. Il numero finora accertato dei civili massacrati supera i 2.500.

Uccisi anche al ritorno

Dei profughi finora sono tornati alle loro case poco più di 100mila, in gran parte vecchi. Di essi una ventina sono stati uccisi al ritorno, dopo il ripristino della democrazia. Il rientro degli esuli, già ostacolato in ogni modo da Tudjman, anche con azioni terroristiche dei suoi «eroi» di guerra, incontra difficoltà anche oggi. Nei passati giorni di luglio un vecchio è stato ucciso dai soliti ignoti a Karin e due fratelli ultrasettantenni sono stati selvaggiamente bastonati. Certo, sono atti di terrorismo sporadici, la situazione è molto migliore che in passato: gran parte delle case distrutte sono state ricostruite, grazie anche agli aiuti internazionali; sono centinaia i consiglieri serbi eletti nelle Assemblee comunali e cittadine da un capo all’altro dell’ex «Krajina»; a Knin, il capoluogo, per un pelo non hanno conquistato la maggioranza nelle elezioni amministrative della scorsa primavera; nel parlamento croato i serbi hanno tre deputati, nel governo una decina di sottosegretari di stato. Ma la presenza in quella che fu la Krajina di parecchie decine di migliaia di «croatissimi» bosniaci con i quali Tudjman tentò di colonizzare la regione, riuscendoci in parte, e di quei «superpatrioti» che già durante la guerra arraffarono tutto quel che poterono arraffare e tuttora restano radicati nelle case tolte ai serbi, insieme alle provocazioni non solo politiche dei neoustascia che scorrazzano dappertutto, rende l’atmosfera pesante, la vita difficile, la convivenza fra le etnie diverse quasi impossibile. Come se non bastasse, manca il lavoro.

Ma perché dire queste cose oggi, a dieci anni dalla «vittoriosa conclusione dell’Operazione Tempesta», mentre ancora riecheggiano gli echi della festa nazionale croata, durante la quale l’«antica capitale dei re croati», Knin, ha ospitato i massimi esponenti della Croazia per le celebrazioni? C’erano tutti a Knin, eccetto il generale Ante Gotovina, già comandante del settore sud di quell’operazione – un generale da quattro anni in fuga, ricercato per crimini di guerra dal Tribunale internazionale dell’Aja. C’erano anche gli altri generali suoi amici e c’erano coloro che presero parte ai massacri, ai saccheggi e distruzioni durante e dopo la «Tempesta». A Knin le celebrazioni sono state due, parallele: da una parte il capo dello stato Stipe Mesic e il premier Ivo Sanader con tutte le autorità, uniti nei discorsi, sulla tribuna davanti alla quale sono sfilati i reparti dell’esercito e in altre cerimonie; dall’altra una ventina di generali «superpatrioti» cacciati da Mesic dall’esercito per indegnità, che – insieme ad alcune centinaia di neoustascia e altri fascisti – hanno progettato ed attuato provocazioni, sfilate, cerimonie religiose. Sull’intera Croazia splendeva il sole ma su Knin e sul tratto della Dalmazia dominato dalla catena del Velebit, dalla quale una parte dell’esercito croato si precipitò sulla Krajina dieci anni fa, infuriava una vera tempesta, con bora che soffiava a duecento all’ora. Il terribile vento ha anche stracciato l’enorme bandiera lunga venticinque metri che fu piantata da Tudjman sulla fortezza turco-veneziana di Tenin/Knin il 7 agosto del `95, quando il defunto «Supremo» esclamò: «Finalmente il tumore serbo è stato strappato dalla carne croata!». Alludeva alla finalità, raggiunta, della «Tempesta»: la pulizia etnica.

Nel suo discorso, il capo dello stato Mesic ha avuto il coraggio – affrontando bordate di fischi e di insulti, tra cui il solito «Zingaro, zingaro», a lui rivolte da alcune centinaia di superpatrioti allo stadio – di condannare i crimini compiuti durante e dopo la «Tempesta». Ha additato alla Croazia «la strada da percorrere in futuro: quella della tolleranza, della convivenza nel pluralismo, senza più odi». I neoustascia hanno scandito, interrompendolo: «Ante, Ante!». Hanno voluto esaltare due «eroi»: Ante Pavelic, il «duce» che nel 1941-1945 terrorizzò la Croazia alla cui testa era stato posto da Mussolini e Hitler, facendo trucidare centinaia di migliaia di serbi, zingari ed ebrei, ed Ante Gotovina, l’«eroe» fuggiasco la cui immagine è stata riprodotta su centinaia di magliette e su grandi fotografie che i suoi sostenitori neri andavano offrendo provocatoriamente per le strade di Knin, cantando inni fascisti e sventolando stendardi nero-teschiati. Una gigantografia di Gotovina è stata piantata e cementata sulla pietraia carsica. I promotori delle provocazioni, i generali a riposo, hanno dato un nome alle loro contro-celebrazioni: «Insorgiamo per la Croazia», un invito alla rivolta contro lo stato democratico. Uno dei pochi serbi che si sono arrischiati a sporgere il naso fuori della porta di casa, una donna, ha voluto stringere la mano al presidente Mesic dicendogli semplicemente: «Stipe, sole mio!».

Slogan ustascia nell’osteria

In osteria riconosco un gruppo di uomini che urlano slogan ustascia esibendo magliette con l’effige dell’«eroe» Gotovina. Li riconosco, avendone vista la fotografia sui giornali più volte alcuni anni addietro; furono processati e condannati per strage di civili nell’ex Krajina. Le pene furono basse, poi intervennero amnistie ed eccoli di nuovo liberi a ubriacarsi. Ecco dall’osteria subito dopo averli riconosciuti, son gente pericolosa, mi dico. Fuori, sulla strada, mi ferma un istriano di Pola che mi chiama per nome e cognome. E’ stato combattente dell’esercito croato con una brigata istriana nel `95; insieme a croati e italiani di Pola, Dignano, Gallesano, Albona, fu impegnato dapprima nella «liberazione» della Krajina e poi nei rastrellamenti. Il conoscente polese mi racconta un aneddoto mai prima d’ora sentito.

La sua ed altre brigate addette a rastrellare i boschi e i monti avevano l’ordine di non fare prigionieri, dice. Un giorno, durante il rancio, gli istriani intonarono un canto popolare istro-veneto, «La mula de Parenzo», seguita dalla nostalgica canzone «Varda la luna, come che la cammina, la passa i monti, il mare e la marina». Nel bel mezzo, il canto venne interrotto dall’apparizione sulla scena di una ventina di soldati nell’uniforme della Krajina con i fucili e mitra a tracolla e le braccia alzate. Si arrendevano. A quel punto, con un secco comando in lingua croata, il comandante del reparto istriano, istriano pure lui, ordinò ai suoi uomini di raccogliere le armi offerte dal nemico. Solo allora, ascoltando quell’ordine nella comune lingua croato-serba, i serbi compresero di essersi arresi all’esercito di Tudjman. La loro morte, pensarono, era sicura. Spiegarono, dopo, di essere stati tratti in inganno dalle canzoni. Una lingua straniera, dunque erano soldati dell’Uncro, soldati dell’Onu… Il comandante del reparto, nel consegnarli al più alto comando, consegnò pure la lista di nomi e cognomi dei prigionieri, dicendo: «Verremo a trovarli, e vogliamo trovarli tutti vivi!». Forse lo sono ancora, gli unici sopravvissuti fra i prigionieri fatti nella «Tempesta».

Il battaglione Garibaldi

Voglio raccontare anche un altro aneddoto, più breve. I serbi della Krajina si vantavano dicendo che nel loro esercito operasse un battaglione di volontari italiani, il «Garibaldi». Si seppe, a guerra finita, che un battaglione con quel nome c’era stato, ma di italiani in esso ce n’era uno solo: un cittadino di Zara, esattamente di Borgo Erizzo, discendente da albanesi. Non ricordo più il suo nome, ma sua moglie fu coinvolta in uno dei massacri di cui furono vittime i civili in fuga dalla Krajina.

La incontrai la prima e ultima volta l’8 agosto in una sacca di pochi chilometri quadrati nei boschi fra Topusko e Glina. A proteggere il ritiro dei profughi c’era anche il «Trattorista» come Tudjman perfidamente soprannominò l’ambasciatore americano Peter W.Galbraith, insieme a diversi giornalisti, anche stranieri. Avevamo attraversato Ogulin, Josipdol, Vojnic, Plaski, Licko Jesenice e Saborsko: tutto un deserto. Fra Topusko e Dvorna Uni decine di migliaia di civili erano imbottigliati. Di tanto in tanto arrivava qualche cannonata da lontano. I profughi stavano lì da quarantotto ore, erano forse cinquantamila, ammassati sul confine tra la Bosnia e la Serbia. Dai campi attraversati dalla strada che porta al confine i contadini serbo-bosniaci correvano per offrire cibo ed acqua ai profughi oppressi dal caldo e dalla sete.

Il 9 agosto finalmente il governo croato concede che i profughi escano dalla sacca e raggiungano la Serbia muovendo da Topusko, Petninja e Dvor. E’ una colonna infinita di trattori, carri agricoli che passano accanto ad altri trattori e carri capovolti e bruciati abbandonati da chi li ha preceduti. Si vedono abbandonati anche coperte, letti, frigoriferi ed altri oggetti, perfino documenti personali. Nei pressi di Dvor, un casco blu danese è testimone di un episodio di inutile crudeltà, uno dei tanti: cinque anziani serbi, handicappati, vengono fatti uscire dalla colonna, trascinati in un edificio e trucidati a sangue freddo. Uno dei cinque viene freddato e resta sulla sedia a rotelle. Nei pressi di Sisak, alla presenza di soldati e poliziotti croati, alcune monache ortodosse vengono fatte scendere, massacrate, uccise a bastonate e calci sferrati da civili con odio bestiale. Qui scomparve anche la moglie, serba, di quell’unico «garibaldino» italiano.