La crisi di Israele: lo stato ha 60 anni, l’occupazione 40

Israele si avvicina al giorno dell’indipendenza, a 59 anni dall’instaurazione dello stato, alle prese con una crisi profonda e con l’opinione pubblica sommersa di problemi apparenti. L’indipendenza di Israele è l’«indipendenza» di una società prigioniera di un nazionalismo paranoico e fondamentalista che oggi acceca la leadership e trascina l’intera società in abissi insospettabili.
Tra poche settimane saranno quarant’anni dalla guerra del ’67. Quella che prometteva essere un’occupazione temporanea si è trasformata in un processo di annessione in cui le colonie hanno svolto un ruolo fondamentale. Oggi si discute l’evacuazione degli insediamenti «illegali» – sarebbero quelli che non contano su un’approvazione ufficiale del governo – ma dal punto di vista del diritto internazionale tutti gli insediamenti sono illegali. Ogni insediamento è un ostacolo intenzionale a qualsiasi processo di pace, una nuova ragione per i circoli fondamentalisti ebrei che desiderano assicurare la redenzione della terra santa che dio avrebbe loro promesso. Gli insediamenti non rappresentano un elemento accidentale ma la costante costruzione di ostacoli sul cammino di una pace possibile, che ai fondamentalisti ripugna.
Il fondamentalismo ebreo non è diverso da quello islamico che a tanti piace criticare: entrambi negano i diritti dell’altro e perseguono l’espulsione degli eretici di entrambi i popoli, ulteriore espressione di molti detestabili fondamentalismi che hanno tanto in comune: fondamentalismi ebrei, islamici, di mercato, dell’imperialismo tipo Bush eccetera. Quarant’anni di occupazione hanno divorato alcuni elementi essenziali della cosiddetta democrazia israeliana. Programmi razzisti o di taglio fondamentalista che in passato erano patrimonio di piccoli e criticati gruppi oggi sono parte del linguaggio legittimo di grandi settori della società israeliana.
In questi giorni tutti si chiedono che è successo alla seconda guerra del Libano e una commissione di inchiesta chiama leader e generali sul banco dei testimoni. E in attesa del verdetto la sinistra moderata, confusa e impotente, scatena la «grande battaglia» per pubblicare i documenti tenuti segreti. Lottano, vanno alla Corte suprema, si affannano per apparire nei telegiornali. E ci fanno dimenticare che una commissione del genere non serve a nulla.
Israele è andata in guerra accecata da una logica bellica che non ha nemmeno cercato un’alternativa all’uso della forza, con un esercito che è da quarant’anni un esercito d’occupazione nel quale gli ufficiali fanno carriera in base alla loro forza repressiva, diventano ufficiali perché sanno perseguire i ragazzini nei vicoli, arrivano a generale al termine di una lunga carriera di occupanti e perdono la capacità di condurre una guerra un po’ più seria della brutale repressione contro la popolazione civile. Con la cecità di chi non capisce che il confronto militare contro un’organizzazione guerrigliera come Hezbollah non è una guerra normale, e l’insensibilità morale di chi si rende sordo a ogni categoria morale. Se ci si abitua all’occupazione, dei freni morali rimane ben poco e diventa normale bombardare la popolazione o distruggere gran parte delle città nemiche.
Dopo quarant’anni e con una società in crisi, con un governo che lotta ora più che mai per la propria esistenza, arriva l’iniziativa di pace della Lega araba. Chi non ricorda l’enorme entusiasmo che provocò la visita di Sadat nel 1977? Ricordo come fosse oggi le decine di migliaia di persone che scendevano per le strade di Gerusalemme e con le lacrime agli occhi aspettavano il passaggio del presidente egiziano. Sembrava potessimo uscire dall’incubo della lotta per l’esistenza, sembrava che la pace con il principale nemico militare di Israele fosse possibile. Oggi il mondo arabo offre una pace estesa, che obbligherebbe Israele a liberarsi dei tentacoli del fondamentalismo nazionalista, e nessuno si emoziona. I demagoghi della destra strillano sui pericoli dell’offerta araba e attendono il momento per gonfiare una volta di più i supposti pericoli mortali derivanti dalle dichiarazioni del molto imbecille presidente dell’Iran.
Così i leader stranieri vanno e vengono ma la situazione internazionale non cambia, i deboli leader israeliani balbettano formule di dialogo che cercano di nascondere la loro impotenza, l’occupazione del Territori continua con la sua routine di violenza e di fame per i palestinesi, la repressione fa germogliare nuove possibilità per il terrorismo islamico.
Il primo ministro, il presidente, i ministri sono sospettati di diverse forme di corruzione e spesso arrivano poliziotti che li interrogano su crimini reali o immaginari. E la lotta contro la corruzione condotta da alcuni leader si trasforma nel tema politico centrale, quando invece il vero problema è la corruzione intrinseca del neoliberalismo rampante che domina società ed economia. L’economia cresce e la diseguaglianze si fa più profonda, i poveri sono ogni giorno più poveri, i problemi sociali si aggravano. Il sistema sociale è stato colpito e quasi distrutto nel processo impositivo di un’economia thatcheriana. E la guerra nel nord all’improvviso provoca uno choc: come è possibile che gli anziani non vengano assistiti dal sistema? Perché c’è gente che soffre la fame o le malattie, a cui i servizi sociali non arrivano? Dove sono finiti i servizi sociali (parzialmente distrutti durante gli anni «allegri» del neoliberalismo)?
Non serve alcuna commissione d’inchiesta: la guerra nel suo aspetto militare, la guerra con le sue ripercussioni socio-economiche, mostra chiaramente i risultati di lunghi anni in cui dal lato del conflitto si è determinata una concentrazione della logica della forza e dal lato socio-economico si è determinata la devastazione dello stato sociale e l’imposizione di un regime neoliberale.
Mentre la maggioranza di questo paese si ostina ad attendere i risultati della commissione d’inchiesta, mentre crescono le critiche – in parte giustificate – contro la leadership politica, allo stesso tempo la stessa gente elude elegantemente l’essenza dei problemi. Il giorno dell’Indipendenza si avvicina e il governo si trasforma sempre di più nel servo dei disegni del presidente americano Bush, dei suoi piani criminali. L’Indipendenza si avvicina e l’occupazione resta parte centrale della nostra vita. L’indipendenza arriva e Israele è prigioniera del neoliberalismo, della sua crescita basata sull’ineguaglianza, dello sfruttamento sui segmenti più deboli della popolazione.
Questi sono giorni più che tristi per un’Israele che invece di festeggiare i suoi successi dovrebbe riconoscere di essere una democrazia in profonda crisi, e senza la minima forza per cambiare il cammino in direzione della pace e di una società più giusta.