La crescita dell’estrema destra nell’Europa dell’Est

Traduzione dal francese a cura di Massimo Marcori per l’Ernesto online

Articolo pubblicato in due parti sui numeri di dicembre 2010 e gennaio 2011 della rivista dell’Associazione Repubblicana dei Vecchi Combattenti “Le réveil des combattants” e ripreso sul blog de l’Atlas alternatif (http://atlasalternatif.over-blog.com).

La crescita dell’estrema destra nell’Europa dell’Est

I tafferugli che hanno accompagnato la partita Italia – Serbia a Genova la sera del 12 ottobre, solo due giorni dopo gli scontri provocati dagli ultranazionalisti a margine del Gay Pride del 10 ottobre a Belgrado (scontri che hanno fatto più di un centinaio di feriti, essenzialmente di poliziotti serbi), sono intervenuti a ricordare quanto la miscela esplosiva di hooliganismo, di machismo omofobo e di esacerbato nazionalismo si manifesti oggi nell’Europa dell’Est, dietro il tranquillizzante discorso pro-europeista della maggior parte dei governi. Più in generale è nell’insieme dell’ex Europa dell’Est che risorgono passioni nazionaliste, la xenofobia e le antiche nostalgie degli anni 30-40, un fenomeno che non è completamente nuovo (lo si era già constatato con il crollo dei regimi sovietici negli anni 1990), e che ha trovato un ritorno vigoroso con l’impatto dei dogmi neo-liberali.

I Balcani occidentali

Il caso serbo è evidentemente spettacolare. Senz’altro non in tutti i paesi l’estrema destra può mobilitare 6000 teppisti per affrontare 5000 poliziotti e portarli a saccheggiare la sede di due grandi partiti politici – il Partito democratico e il Partito socialista (il vecchio partito di Milosevic divenuto pro-europeista). A Zagabria in Croazia, e a Sofia in Bulgaria, o ancora nella consueta saggia Estonia nel 2006, gli omofobi non erano che una manciata a tentare di ostacolare i differenti gay pride nel corso degli ultimi cinque anni.
Senza dubbio è la Serbia oggi il paese dei Balcani in cui l’estrema destra è più potente. Il partito radicale di estrema destra non ha mai raccolto meno di un terzo dei voti dopo la caduta di Slobodan Milosevic. Alle elezioni presidenziali del febbraio 2008, il suo candidato Tomislav Nikolic ha raccolto più del 47% dei voti al secondo turno (in uno scrutinio conteso dove la partecipazione ha superato il 60%). E nulla indica che la recente scissione in seno alla sua direzione debba votarlo al declino.
La Serbia paga le conseguenze della sua demonizzazione presso i paesi occidentali, nonostante la sua capitolazione incondizionata su tutti i punti (ad eccezione di quello del riconoscimento del Kosovo). Il paese ha ampiamente perso la propria sovranità. Il quadro istituzionale, che ha liquidato la Repubblica federale di Yugoslavia, è uscito da una “rivoluzione colorata” teleguidata da Washington (la prima del genere) nell’ottobre 2000. A Belgrado è stato intimato di estradare verso l’ambiguo tribunale internazionale per i crimini di guerra nell’ex Yugoslavia quattro dei suoi generali e un ammiraglio. Sul piano economico il paese ha privatizzato i gioielli della sua economia, e il vecchio quartiere popolare feudo della sinistra nella capitale “Nuova Belgrado” è il paradiso delle grandi banche occidentali.
Le ricompense ricevute per l’umiliante allineamento della Serbia sono state minime: l’adesione all’Unione Europea promessa da alcuni è stata rimandata. In un primo tempo è stato rimproverato a Belgrado di non fornire sufficienti sforzi per ritrovare il generale serbo-bosniaco Mladic accusato di crimini contro l’umanità a Srebenica. Oggi la procedura di adesione è bloccata dall’Olanda, mentre essa era stata promessa in settembre dai grandi paesi dell’Unione in cambio della rinuncia della Serbia alla presentazione davanti all’assemblea generale dell’ONU (dove conta su numerosi appoggi) di una mozione che denuncia il riconoscimento unilaterale del Kosovo. Inoltre il paese rimane minacciato da diversi irredentismi nel Sangiaccato e in Vojvodina.
In questo contesto, e mentre a sinistra il partito socialista (il cui presidente Milosevic è morto a L’Aja in strane circostanze, forse sfinito dal ritmo di un processo arenato nel tentativo di mostrare la veridicità delle accuse portate contro di lui) si è penosamente allineato agli europeisti, il partito radicale può capitalizzare sulla sua immagine di partito “antimperialista” pro-russo, il cui leader è incarcerato a L’Aja e che si richiama ad una lunga tradizione che risale al suo omonimo fondato nel 1881 (all’epoca della lotta contro l’Austria-Ungheria), ed alla resistenza dei monarchici cetnici di fronte al nazismo.
Ma la Serbia non è il solo paese ad Ovest dei Balcani in cui l’ultranazionalismo e la xenofobia prosperano. In Bosnia Erzegovina, le elezioni parlamentari e legislative del 3 ottobre scorso, hanno confermato presso i Serbi come presso i Croati di questo paese di fatto amministrato dall’Occidente, in ciascuna delle entità etniche uscite dagli accordi di Dayton, la vittoria dei partiti nazionalisti e un rifiuto di coabitare in una nazione multiculturale. Nel febbraio del 2010 è nato in Bosnia un Movimento dell’orgoglio nazionale bosniaco d’ispirazione neonazista. Questo si richiama al ricordo della divisione SS Handschar e proclama che “gli ebrei, i rom, i cetnici, i separatisti croati, Tito, i comunisti, gli omosessuali e i neri” sono i suoi principali nemici. La nostalgia nazista (ustascia) è diffusa anche in Croazia. Nel Kosovo le violenze e i tormenti contro la minoranza serba proseguono, il Consiglio d’Europa denuncia regolarmente il razzismo anti-rom in Albania, e nel 2006 il ministro degli affari esteri albanese Besnik Mustafaj agitava ancora la prospettiva di creare una grande Albania.

Ancora più ad Est

Anche ai confini orientali dell’Unione europea il nazionalismo e la xenofobia godono di buona salute. Il 27 luglio 2008, la città di Lvov, antica Limburgo, capitale della Galizia, organizzava insieme alla televisione locale una grande manifestazione in onore dell’Armata insurrezionale ucraina (UPA), la corrente nazionalista ucraina che aveva collaborato con i nazisti (prima di combatterli) e delle SS Galizia, unità suppletiva di SS costituita da nazisti ucraini che hanno commesso massacri di civili, soprattutto nell’ex-Yugoslavia. “Per quanto sorprendente possa sembrare, mentre la Crimea tutta intera vive nella nostalgia dell’URSS, la Galizia, un tempo polacca e integrata oggi nell’Ucraina, molto nazionalista, è per ciò che la riguarda nostalgica del suo vassallaggio all’occupante nazista” scriveva in termini un po’ schematici il saggista e romanziere Michael Prazan, il 15 settembre 2008, in un blog legato al giornale Le Monde. Il capo dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUM) Stepan Bandera ha delle vie intitolate a suo nome, dei monumenti e dei musei alla sua gloria in numerose città dell’Ucraina occidentale.
Questo neo-nazismo galiziano si oppone a forme di ultranazionalismo russo che presenta tratti simili per ciò che riguarda soprattutto il razzismo, l’antisemitismo e l’omofobia, e sono disseminate in decine di movimenti che vanno dal partito nazional bolscevico al movimento Pamyat. Queste tendenze, marginalizzate nel corso degli ultimi anni sullo scacchiere politico dal predominio del partito di Putin Russia Unita, continuano a provocare tensioni nella società attraverso diversi incidenti riportati dalla stampa.
L’orientamento ideologico del Consiglio d’Europa, che da anni pone il nazismo su un piede di parità con il comunismo, ha avuto un ruolo nella minimizzazione dell’ultranazionalismo di questi paesi. Allo stesso modo la politica offensiva di George W. Bush, appena attenuata da poco da Barack Obama, che, tramite rivoluzioni colorate in Ucraina e in Georgia, ricercava sistematicamente l’accerchiamento della Russia, ha pure giocato un ruolo considerevole nel rinfocolare le tematiche nazionali.

Tra i nuovi membri dell’Unione Europea

Ma il flagello ultranazionalista, nelle versioni spesso fascistizzanti, torna anche in forza ormai all’interno della stessa Unione Europea, in particolare nei paesi un tempo alleati alle potenze dell’Asse, in cui il comunismo è stato imposto in modo artificiale dall’occupazione dell’Armata Rossa.
Il caso topico che ha inquietato negli anni 2000 è quello della Lettonia in cui raduni di nostalgici delle divisioni SS si tenevano annualmente senza turbare oltre misura i governi in carica a Riga, né a suscitare reazioni ostili da parte dei governi dell’Europa occidentale. Questi raduni neonazisti hanno finito per suscitare una certa agitazione a Londra nel marzo scorso quando i sostenitori di Tony Blair hanno rimproverato al partito conservatore inglese di formare un gruppo comune al Parlamento Europeo con il partito “Per la patria e la libertà – LNKK” (un partito membro della coalizione governativa a Riga apertamente associato a questo rifiorire fascista, che aveva raccolto quasi il 30% dei suffragi alle prime elezioni dei deputati lettoni al Parlamento Europeo, e che ha per fortuna diviso per quattro il suo risultato nel 2007). Il segretario di Stato statunitense Hillary Clinton, sotto pressione delle organizzazioni ebree, aveva già convocato David Cameron a questo proposito nell’ottobre 2009.
Nell’insieme tuttavia la polemica è rimasta circoscritta alla campagna elettorale britannica. I grandi giornali degli altri paesi ne hanno parlato poco, e non sono stati turbati più di tanto dalla marcia dei nazionalisti a Vilnius al grido di “La Lituania ai Lituani” l’11 marzo scorso, né dalle esercitazioni paramilitari molto dubbie organizzate ogni anno in Estonia con la benedizione delle autorità di Tallin, in onore del gruppo Erna che, nel 1941, consegnava informazioni ai nazisti sui movimenti dell’Armata Rossa. Come hanno notato osservatori perspicaci, si attende sempre che le autorità dei paesi baltici impieghino lo stesso zelo nell’arrestare i pensionati delle Waffen SS che hanno usato nel mettere sotto chiave gli agenti del vecchio regime comunista. Nessun vecchio criminale di estrema destra è stato arrestato in questa regione dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
La Lettonia rimane oggi una miscela particolarmente esplosiva per l’Unione Europea. Paese in cui vive la più forte minoranza russa (25% della popolazione, e una minoranza unita dietro al movimento di sinistra “Centro dell’armonia” che ha raccolto quasi il 20% alle elezioni europee), è anche quello che conosce un trattamento choc alla maniera argentina: obbligato dai finanziatori internazionali ad agganciarsi al forte euro riducendo drasticamente i suoi costi di produzione per mantenere la competitività esterna, esso ha subito una recessione più violenta che quella degli Stati Uniti nel 1929. Il PIL è calato del 24% in due anni (2008-2009), e la disoccupazione (molto debolmente indennizzata) è cresciuta ad oltre il 20%. Buona ricetta per coltivare il nichilismo politico.
L’Ungheria, altro alleato storico del Reich tedesco, è allo stesso modo all’avanguardia della rinascita del fascismo. Il partito Jobbik, movimento xenofobo nato nei circoli studenteschi nel 2003, che insiste sulla preservazione delle identità storiche ( il ricordo dell’ammiraglio Horthy), il cristianesimo, la cultura ungherese, la famiglia o ancora l’autorità ha raccolto il 12% alle ultime elezioni legislative dell’aprile 2010, cioè quasi quanto il partito socialista al potere fino ad allora (e dei picchi di quasi il 30% nelle zone a forte densità di Rom).
L’esempio magiaro è un caso interessante dove forme fasciste nascono sul terreno di un patriottismo conservatore popolare. Jobbik è cresciuto all’ombra del Fidesz (Unione Civica Ungherese) che, mentre il partito socialista ungherese (ex comunista) si è allineato anima e corpo alle politiche neo-liberali, si presenta come un bastione contro la mondializzazione. Questo partito da qualche anno promette di dare il passaporto ungherese a tutti i cittadini esteri delle minoranze fuori dal suo territorio (in Romania, in Serbia, in Slovacchia), e contribuisce a favorire la diffusione della mappa della Grande Ungheria del 1914. Il Fidesz al potere dallo scorso aprile con il sostegno di una maggioranza schiacciante, avrebbe potuto rovesciare con la forza il socialista (social-liberale) Ferenc Gyurcsàny fin dall’ottobre del 2006. Questo aveva provocato una insurrezione popolare contro di lui confessando di aver mentito agli ungheresi per farsi rieleggere e di aver presentato promesse che non poteva mantenere. Il Fidesz aveva esitato a rovesciare il governo in quel momento e così il Jobbik ha potuto presentarsi come il partito del legittimo rilancio (“il più a destra e il più giusto” come indica il suo nome in magiaro).
Come in Lettonia, la crisi finanziaria è per molti all’origine di questo ritorno nazionalista in Ungheria: diminuzione di salari della funzione pubblica e delle pensioni, aumento di imposte, calo del PIL del 7% nel 2009.
I due recentemente entrati nell’Unione Europea, la Bulgaria e la Romania – due paesi sotto tutela del FMI – hanno anche votato massicciamente per partiti ultranazionalisti, dai discorsi abbastanza simili. Al primo turno dell’elezione presidenziale bulgara del 2006, il candidato del partito ultranazionalista e xenofobo Attaka (Attacco), Volen Siderov, era arrivato secondo con il 21,5% dei voti, dietro al presidente socialista uscente Georgi Parvanov. Nel 2005, il partito Attaka aveva realizzato manifesti che mostravano una mappa della Bulgaria ricoperta da bandiere turche e israeliane, per ben mostrare che esso considera il paese come “occupato”. I suoi militanti hanno anche sfruttato molto la frase usata dal presidente israeliano Shimon Peres all’hotel Hilton di Tel-Aviv il 10 ottobre 2007: “Da parte di un piccolo paese come il nostro, è quasi stupefacente. Vedo che compriamo Manhattan, l’Ungheria, la Romania e la Polonia”. In Romania, il Partito della Grande Romania (Romania Mare) è piuttosto sulla via del declino (è passato sotto la soglia del 5% nel 2009) ma la cura di austerità nella quale il paese è sprofondato potrebbe favorirlo.
Certamente alcuni paesi, soprattutto quelli che sono stati un tempo i più oppressi dal nazismo come la Repubblica Ceca o la Polonia, sfuggono alle risorgenze del fascismo (ciò che non esclude tuttavia lo sviluppo al loro interno di movimenti nazional-conservatori). Inoltre la volatilità dell’elettorato nell’Europa dell’Est può sempre far sperare in un rapido declino di certi partiti di estrema destra oggi favoriti dalle conseguenze della crisi finanziaria (il caso si è già verificato negli anni 1990). Ma questi fenomeni recenti in ogni caso traducono un malessere, che impregna profondamente oggi l’Europa Centrale e Orientale, un malessere che segna l’incapacità delle potenze occidentali di proporre al continente europeo delle opzioni democratiche e pacifiche alle quali le popolazioni potrebbero di aderire sul lungo termine.