La Costituzione smarrita, un’anomalia italiana

Nel dibattito pubblico degli ultimi vent’anni, l’idea della governabilità si è imposta su quella della trasformazione della società. Un’impasse teorica analizzata in un saggio di Salvatore d’Albergo

E’ ancora presto per dire quale saranno gli effetti strutturali e quali, invece, gli effetti legati alla congiuntura politica. Per ora la riforma della seconda parte della Costituzione – che approda al Senato per il voto finale proprio questa mattina – sembra chiudere un ciclo avviato con la Bicamerale di D’Alema, proseguito con i governi di centrosinistra e sigillato dall’attuale maggioranza di centrodestra. Ma sarebbe comunque una prospettiva riduttiva limitare la questione costituzionale e il suo impatto sulla cultura politica soltanto alle vicende istituzionali. In nome dello specialismo e della separazione di ruolo tra le discipline è diventato di voga considerare la scrittura/revisione della carta costituzionale una semplice questione tecnica appannaggio di esperti ai quali spetterebbe formulare le regole del gioco. Così viene oscurato il legame tra la Costituzione e le vicende storiche, sociali e politiche che agiscono a suo fondamento.
La storia dell’Italia repubblicana dimostra tra l’altro la presenza della carta costituzionale nella cultura politica e, più in generale, nel dibattito culturale. Si potrebbero distinguere fasi diverse in questo rapporto complesso tra processi politici, movimenti ideali e atteggiamento diffuso nei confronti della Costituzione. Attorno al progetto della Costituente – primo banco di prova per una nuova classe politica – si coagula nei primissimi anni del dopoguerra l’eredità della Resistenza. L’unità antifascista tra i partiti di massa non è soltanto una formula retorica: ad essa corrisponde, in questa fase iniziale, un vero e proprio progetto di società, imperniato sulla centralità del lavoro e sul principio della limitazione del diritto borghese alla proprietà. A fare dell’Italia un laboratorio avanzato dal punto di vista giuridico è l’idea che la Costituzione debba non soltanto limitarsi a descrivere le regole del gioco, il funzionamento delle istituzioni, ma tratteggiare la cornice di una democrazia progressiva, in sviluppo, suscettibile di accogliere al proprio interno elementi di una transizione sociale. Ma l’«anomalia italiana» – come la definisce Salvatore d’Albergo nel suo ultimo lavoro Diritto e Stato (Teti Editore, pp. 368, euro 18,00) – troverà solo in alcune fasi salienti delle storia repubblicana un contesto favorevole. Già negli anni dei governi centristi e monocolori della Democrazia Cristiana l’attuazione della Costituzione si limita all’osso, alle regole minime indispensabili per la coesistenza civile. Il resto, tutto ciò che riguarda le parti programmatiche, s’infrange nella durezza della situazione internazionale, della Guerra Fredda. Bisognerà attendere il ciclo di lotte sociali tra gli anni Sessanta e Settanta perché quell’idea di democrazia in sviluppo inscritta nella Costituzione fin dalle origini riacquisti vigore.

Come e perché – si chiede d’Albergo – dopo quella stagione è stata rimossa l’anomalia italiana? All’idea che le forme della democrazia dovessero accogliere progressivamente elementi sostanziali – l’uguaglianza di fatto, la programmazione economica, la limitazione del potere esclusivo del mercato e dell’impresa – si sostituisce nel dibattito pubblico la prospettiva del formalismo giuridico. Negli anni Ottanta si fa strada la questione della governabilità, della funzionalità delle istituzioni, delle “regole del gioco” rivendicate come necessarie di fronte all’eccesso di democrazia. Nella Costituzione s’intravede un ostacolo farraginoso che impedirebbe al sistema di funzionare al meglio, causa soprattutto il peso preponderante attribuito al parlamento. Presto si forma un vero e proprio filone politico che ha nel rafforzamento dell’esecutivo la principale parola d’ordine. C’è in questo il segno di una ripresa delle forze tradizionalmente ostili alla carta costituzionale. C’è anche il terreno imposto da una rinnovata capacità egemonica della destra che poi il berlusconismo avrebbe fatto proprio. Ma c’è, infine, anche il segno di un’impasse teorico della sinistra italiana che avrebbe perso – sottolinea d’Albergo – quella connessione ideale e sentimentale con la carta costituzionale che ne aveva ispirato, per lungo tempo, il progetto di trasformazione sociale. Il riferimento è soprattutto al Pci degli anni Ottanta, responsabile d’aver messo da parte la Costituzione intesa come “programma” (nel senso in cui ebbe a rivendicarla non molto tempo fa un intellettuale come Sanguineti) e subìto il fascino del pensiero di Norberto Bobbio – contro la cui filosofia del diritto d’Albergo conduce nel volume una critica serrata.

Da qui nasce il contesto culturale che avrebbe in questi ultimi anni orientato le riforme della nostra Carta, tutte avanzate col pretesto di migliorare l’efficienza, la stabilità, la governabilità. L’«alternanza» in luogo dell’«alternativa». Il modello anglosassone del bipartitismo al posto del sistema proporzionale, il libero mercato come unico orizzonte ammesso e invalicabile.

Ma è anche nella storia del marxismo italiano che d’Albergo individua una delle cause dell’offuscarsi della cultura costituzionale all’interno della sinistra italiana, ben prima della caduta del Muro di Berlino. «Ciò fu possibile perché il marxismo italiano aveva elaborato la questione dello stato indipendentemente dalla questione del diritto», aprendo la strada al predominio della filosofia di Bobbio, al «giuspositivismo». «Abbandonata la storicità – spiega nella prefazione Andrea Catone – non la trasformazione diviene l’oggetto di studio del diritto, ma la norma, la regola; la costituzione viene concepita come un sistema di regole e regolamenti. Non era questa l’ispirazione fondamentale della Costituzione e, prima ancora che criticare a buon diritto le riforme elettorali o quella federalista, bisognerebbe riflettere proprio su questo mutamento dell’oggetto stesso: dalla costituzione strumento di cambiamento alla costituzione quale regolamento, regolamento tecnico, funzionale alla stabilità e governabilità». Lo specialismo e la divisione per settori nel sapere universitario ha fatto il resto, separando le scienze giuridiche dalla filosofia, dalla storia, dall’economia, dalla sociologia, come se le regole e il diritto fossero qualcosa di a se stante.