Sull’orlo dell’abisso, Rifondazione comunista. L’impressione è che non regga più: troppo forte, sulla vicenda del welfare, la pressione del Pd, «stavolta si fa come dice Dini», è il messaggio che è arriovato chiaro da palazzo Chigi. Una linea che ha messo il Prc con le spalle al muro, ed è esattamente questa la condizione che Giordano non tollera. Sta di fatto che il Prc non ha molta scelta: abbozzare anche se «per l’ultima volta» e chiedere la fatidica «verifica» a gennaio (che peraltro in serata palazzo Chigi derubrica a un più ordinario «punto sull’azione di governo»). Un classico. Oggi parlando alla camera anche Diliberto condividerà l’analisi, il Pdci ritiene che si sia consumato «uno strappo» e che «il quadro è cambiato». Il malesssere venuto alla luce nel Prc e nel Pdci potrebbe avere conseguenze pesantissime al senato, entrato in un tour de force clamoroso: decreto fiscale, sicurezza, welfare e finanziaria.
Diversi osservatori fin dalla tarda mattinata di ieri avevano già disegnato il finale della storia: il partito di Fausto Bertinotti voterà la fiducia sul welfare per disciplina e poi staccherà la spina. Ma sembra impossibile, adesso. Non tanto per lo “spettro del ’98” quanto per una ragione tutta politica: se Rifondazione facesse cadere il governo dovrebbe dire addio al progetto della Cosa rossa agognato da Bertinotti e per il quale si è speso anche Giordano. La caduta del governo in effetti sarebbe una mossa contro il presidente della camera, il che adesso è impensabile. Di certo all’interno del partito si va verso un chiarimento di fondo, per meglio dire una resa dei conti interni che è prevedibile avrà ricadute sulla vita del governo. A partire dalla direzione di lunedì, il confronto diventerà ancora più aperto e aspro di quanto già non sia. Un terremoto in vista. Ieri la scossa tellurica ha investito in pieno il gruppo dei deputati: 4 della minoranza, Pegolo,
Caruso, Mercedes Frias, Burgio ma anche 6 esponenti della maggioranza: Ramon Mantovani, Franco Russo, Paolo Cacciari, Marilde Provera, Maurizio Acerbo e Angela Lombardi, oltre al solito Cannavò, voteranno contro la fiducia al governo sul welfare. Migliore ha dovuto faticare ma lo strappo di un quarto dei deputati c’è. In una precedente riunione del gruppo, in mattinata, erano volate parole grosse, sempre con Mantovani protagonista. Claudio Grassi e Alberto Burgio in una nota intanto definivano «grave» il comportamento del governo, che «chiede obbedienza erodendo le ragioni per sostenerlo». Al senato aspettavano lumi, lì anche un voto è decisivo, e si considera già perso quello di Fosco Giannini mentre vengono dati in pericolo quelli di Haidi Giuliani e Lidia Menapace. Come da copione, nelle ore più drammatiche ieri si è riunita la segreteria che essendo tutta “giordaniana” ha seguito il segretario: votiamo la fiducia ma adesso basta, da Prodi pretendiamo un cambiamento di linea. È una toppa sul buco. Perché il dissenso si allarga, anche nel gruppo dirigente, e per Franchino è il momento più difficile.
Quello che è sicuro è che dentro il partito monta ogni giorno di più l’insofferenza verso quella che viene definita «la deriva governista», che peraltro sarebbe alla base del calo di consensi registrato dai sondaggi. È il momento degli “autoconvocati”, come è successo due giorni fa a Firenze. C’è un documento firmato da 1300 persone contrario all’ipotesi della Cosa rossa, “un’ area critica” benedetta da esponenti come Mantovani e Pegolo, nonché Giorgio Cremaschi, che potrebbe saldarsi con un pezzo della minoranza dell’Ernesto e parlare persino ai trotzkisti di Cannavò, se non addirittura ai fuoriusciti Turigliatto e Ferrando. Una miscela antibertinottiana e antigiordaniana: se il testo fiorentino diventasse l’embrione di una mozione congressuale, per Giordano al congresso di marzo sarebbero dolori, la maggioranza congressuale che lo sorregge non ci sarebbe più.