Fassino e D’Alema guidano incontrastati la volata: nella generale corsa al centro delle socialdemocrazie europee – intese in senso lato come eterogenea famiglia che si ritrova al parlamento di Strasburgo nelle file del partito socialista europeo – si accingono a attraversare per primi, a Firenze, il traguardo dell’autoaffondamento come partito di sinistra. Ma sebbene i leader dei partiti fratelli non abbiano ancora il fegato di seguirli sulla via dell’ harakiri, la dissoluzione di fatto delle socialdemocrazie realmente esistenti è sotto gli occhi di tutti.
Per amore di «realismo»
Le varianti del trasformismo sono infinite, la logica di fondo sempre la stessa: per amor di realismo ci si adegua all’andazzo neoliberista. A furia di “modernizzarsi” si assomiglia ai partiti governativi tradizionali, si diventa interscambiabili, si perdono colpi. Alle batoste si reagisce gettando ancora più zavorra “tradizionalista”, in una spirale all’infinito di omologazione.
In Scandinavia non si poteva non dirsi socialdemocratici, per le stesse ragioni per cui Croce sosteneva che non possiamo non dirci cristiani: si cresceva “dentro” la socialdemocrazia. Ora i socialdemocratici sono estromessi da tutti i governi. Dopo la Danimarca e la Svezia, il ciclo si è chiuso due settimane fa con il voto in Finlandia. Matti Vanhanen, capo del partito di centro già al governo con i socialdemocratici, sta formando una coalizione conservatrice, con un modesto innesto verde.
In Gran Bretagna il partito di Tony Blair, che un decennio fa guidava baldanzoso la marcia sulla “terza via”, è in pessima forma. Per le amministrative del 3 maggio, con due appuntamenti regionali in Scozia e Galles, i pronostici danno il Labour al 29%, il liveloi cui si era ridotto negli anni ’80 come impotente opposizione di Thatcher.
Come che vadano le presidenziali in Francia, di Ségolène Royal, appena al 20% nei sondaggi, non si può dire che abbia dato in campagna elettorale una prospettiva strategica al partito socialista. Paralizzata dal terrore di scontentare qualcuno, si è ben guardata dal dire qualcosa di sinistra.
In Germania la Spd, il partito socialdemocratico, versa in condizioni disastrose. L’ultima ferale notizia è venuta mercoledì da un sondaggio della Forsa: agli elettori socialdemocratici la cancelliera Angela Merkel piace più del presidente Spd Kurt Beck. Se potessero scegliere direttamente il capo del governo il 39% opterebbe per la democristina, solo il 35 % per il leader del proprio partito.
Se si votasse adesso la Spd, impantanata in una grande coalizione con la Cdu di Merkel, prenderebbe il 26 % dei suffragi, 8 punti in meno di quanti ne ebbe nel 2005. Cdu e Csu, che allora scavalcarono solo di misura la Spd con il 35 per cento, sono ora irraggiungibili al 37 per cento.
La Spd è un modello di trasformismo nella continuità: mai un bizzarro cambiamento di nome in più di 140 di storia. Ma il contenuto sotto l’immutata etichetta è andato drasticamente cambiando negli ultimi anni.
Non è più ovvio definirla un partito di sinistra. Gerhard Schröder vinse le elezioni nel 2002 presentandosi come «cancelliere del centro», e non era solo uno slogan improvvisato. Qualche anno prima Schröder aveva decretato solennemente che non ci sono politiche economiche di destra o di sinistra, ma solo «moderne o non moderne»
A tappe forzate ha imposto al paese un’agenda di “riforme” neoliberiste del fisco e dello stato sociale – ora continuate da Merkel – da cui il partito non si è più ripreso. Accecato dall’hybris, e per dare una lezione ai socialdemocratici renitenti, ha giocato d’azzardo provocando lo scioglimento del parlamento e elezioni anticipate. L’oltranzismo non ha pagato.
La Germania insegna
Uscito di scena Schröder, dopo la batosta elettorale del 2005 la Spd ha bruciato in pochi mesi due presidenti, Müntefering e Platzeck. Un anno fa, per disperazione, la poltrona è passata a Kurt Beck, pacioso e rotondo ministro-presidente della Renania-Palatinato.
Beck ha l’aria del papà bonario e paziente. Sa conciliare, ed è riuscito a riportare un po’ di calma in famiglia. Ma solo un terzo dei tedeschi, sconcertati dalla girandola di nomi alla presidenza, sa ora che è lui il capo della Spd.
Kurt Beck prova e riprova a lanciare nuovi temi nel dibattito politico, ma lo fa in modo erratico e contraddittorio. Una volta dice che bisogna riconoscere e onorare i meriti e servizi resi alla società dal ceto medio. Un’altra ammonisce a avere “più rispetto” per i poveri e gli esclusi. Poi gli capita di dire in pubblico, a un disoccupato che lo contesta: “Vatti a lavare e fatti tagliare i capelli”, se fossi meno trasandato un lavoro lo troveresti.
Recentemente si è schierato contro lo scudo antimissilistico che gli Usa si preparano a schierare in Polonia, perché potrebbe scatenare una spirale di riarmo. Ha perfino proposto – scandalizzando gli alleati di governo democristiani – di trattare in Afghanistan con i “talebani moderati”. Ma sono sembrate uscite estemporanee, senza la voglia di ingaggiare battaglie politiche. Fatto sta che, sebbene la maggioranza dei tedeschi condivida la contrarietà ai missili-antimissile e sia perplessa sull’intervento in Afghanistan, nei sondaggi Beck resta a terra.
Dal 1990 a oggi il partito è passato da 950mila a 570mila iscritti, perdendo soprattutto i più giovani e impegnati. Qua e là la proverbiale macchina organizzativa si inceppa. A Wiesbaden ci si è dimenticati di presentare in tempo un candidatura per le elezioni comunali. A Amburgo si è dovuto annullare un referendum tra gli iscritti per scegliere il candidato alle prossime regionali, perchè un migliaio di schede sono state sottratte dalle urne, certo da “compagni” dell’apparato che avevano le chiavi dei locali in cui erano custodite.
Beck, da leader di un partito fratello, venerdì sarà a Firenze a esibire la solidarietà di prammatica. Farà finta di credere alle promesse di Fassino sulla futura collocazione del partito democratico nel gruppo socialista europeo. Ma alla Spd sanno che gli impegni in questo senso, visto il veto di Rutelli, resteranno sulla carta. Non si fanno illusioni. L’appartamento italiano nel condominio socialdemocratico si svuota. Piove sul bagnato.