Un salutare `anti-Revelli’. È senz’altro riduttivo leggere in quest’ottica questo libro di Alberto Burgio(1), e probabilmente anche equivoco: si può pensare ad un pamphlet estemporaneo in risposta a Oltre il Novecento, mentre è un lungo e meditato saggio apparso tre mesi prima. Eppure, definirlo un `anti-Revelli’ può servire a meglio apprezzarne il valore politico. L’intento di Burgio è infatti quello di recuperare il significato positivo di ciò che, invece, forma oggetto delle critiche negatrici e distruttive di Revelli, vale a dire l’idea che la storia possa essere concepita come prodotto umano e che masse di individui possano muoversi in forma coerente e organizata in vista della propria liberazione. Per questo il confronto a distanza tra i due libri può rivelarsi sommamente proficuo: perché dalla lettura del libro di Burgio si può ricavare un’idea del Novecento diametralmente opposta a quella di Revelli e, soprattutto, una prospettiva di uscita dalle sue contraddizioni – sempre di andare `oltre il Novecento’ si tratta – del tutto diversa da quella con cui si chiude la riflessione revelliana.
Quale idea della storia, innanzitutto. Scrive Burgio nella prefazione che la storia appare a Kant, Hegel e Marx «come un processo nel corso del quale la razionalità realizza se stessa, si incarna nel mondo modificandolo, e in questo faticoso cimento accresce le proprie conoscenze e capacità». È, insomma, `storia della libertà’ (o forse, più esattamente, di liberazione): la realtà cessa di apparire un che di esterno e immodificabile e diventa luogo di realizzazione dell’azione umana, trasformatrice della natura come della società. I rapporti fra soggetto e oggetto, fra teoria e prassi, fra previsione ed eventi sono pertanto i nodi intorno ai quali quest’idea si addensa, acquista spessore, si materializza; il lungo corteo che da Nietzsche arriva ai teorici del post-moderno è l’avversario filosofico, un avversario che, al momento, sembra aver talmente ripreso l’egemonia da indurre Burgio ad ammettere che l’idea di storia di cui ci parla «appare ai nostri giorni improponibile».
La domanda che viene spontanea, allora, è: perché questa idea della storia è andata in crisi, nonostante «in un passato ancora recente» abbia «interpretato talmente bene il mondo da riuscire anche a trasformarlo»? Burgio, al riguardo, non ha esitazioni: la crisi ha natura «pratica e politica». Non perché, banalmente, sia la prassi a costituire il banco di prova della teoria, ma perché è inscritto nello statuto epistemologico di questa teoria della storia l’essere periodicamente (ciclicamente) messa in crisi dalla prassi che pure fino ad un momento prima era riuscita positivamente a orientare. La risposta, semplice ma non semplicistica, è tutta qui: la «razionalità del reale» evocata da Hegel nella prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto è fin dall’inizio destinata a trasformarsi nel suo contrario («tutto ciò che nel contesto della storia umana è reale diviene, col tempo, irrazionale», glossava Engels: ed è, nota Burgio, ancora il miglior commento all’affermazione hegeliana).
Non è dunque l’idea che la storia possa essere il luogo di dispiegamento di una prassi razionale ad essere entrata in crisi, quanto piuttosto la forma specifica della razionalità che ha guidato fino a ieri la prassi collettiva. Questo mi sembra il principale suggerimento che è possibile desumere dal discorso di Burgio, un discorso – va detto – svolto con estrema chiarezza e ricchezza di argomentazione e che non è possibile riassumere, perché l’autore non ha davvero sprecato parole.
Quale idea del Novecento è allora possibile farsi a partire da queste premesse? Se guardiamo all’esperienza del secolo trascorso dal punto di vista del movimento operaio, mi pare indiscutibile che l’idea-forza che ne ha guidato l’azione sia stata quella di considerare i rapporti di produzione, ossia quei rapporti che si instaurano fra gli individui nello svolgimento della loro attività produttiva, come i rapporti dai quali dipendeva l’insieme delle loro libertà. Sotto questo profilo, sono le pagine hegeliane della Fenomenologia dello spirito dedicate alla dialettica servo-signore – a proposito delle quali Burgio sottolinea la necessità di una lettura che ne colga «la funzione di stilizzare due tappe cruciali della vicenda di ogni comunità umana» – a rappresentare, seppure in forma idealtipica, il senso complessivo della prassi del movimento operaio. Il lavoro vi è visto, al tempo stesso, come esperienza di oggettivazione e strumento di affermazione dell’autocoscienza `vera’: come scriverà Marx (qui interprete `autentico’ di Hegel), nella sua determinazione storica di lavoro salariato è, infatti, esperienza di alienazione, in quanto sottomesso al potere cosale del denaro, ma contiene in sé il nocciolo del rovesciamento. Le citazioni ad adiuvandum – dai Manoscritti del ’44 al Capitale – potrebbero moltiplicarsi a dismisura e le darò per note. Ma che l’emancipazione si realizzi attraverso l’attività produttiva va rimarcato, soprattutto per sfatare le opinioni correnti che ravvisano, invece, una `cesura’ fra Marx e il comunismo novecentesco. In realtà, fin dall’Ideologia tedesca, Marx (e con lui Engels) non si stanca di ripetere che non è possibile attuare una liberazione reale se non nel mondo reale e con mezzi reali: la schiavitù non si può abolire «senza la macchina a vapore e la Mule Jenny», la servitù della gleba non si estirpa senza un’agricoltura migliorata e, in generale, non si possono liberare gli uomini «finché essi non sono in grado di procurarsi cibo e bevande, abitazione e vestiario in qualità e quantità completa».
Perfettamente consequenziale con quest’impostazione si rivela, allora, la strategia che informò la prassi del movimento operaio quando, all’indomani della seconda guerra mondiale, apparve chiaro – dopo la Grande Depressione, la disoccupazione di massa e l’esperienza dei fascismi – che il mercato non possiede la virtù di equilibrare produzione e consumo al livello reso astrattamente possibile dallo sviluppo delle forze produttive sociali, ma – anzi – spesso fa sì che questo livello si stabilisca molto al di sotto di quanto sarebbe possibile. Di fronte all’impasse in cui erano precipitate le società dell’Occidente avanzato, infatti, il movimento comunista – consapevole di quanto lontano fosse ancora quel «regno della libertà» evocato a conclusione del terzo libro del Capitale — non cercò di battere la romantica (e impossibile) via di ricostituire le condizioni di autonomia proprie della produzione artigianale, ma piuttosto — mi si passi l’espressione hegelo-marxiana — di «togliere» la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione costruendo una forma superiore delle relazioni sociali, per mezzo e all’interno della quale fosse possibile tornare a riprodurre il lavoro necessario.
Ancora una volta – anche qui Burgio ha perfettamente ragione – è Hegel ad offrire la chiave di lettura di quanto accaduto: se il mercato è per definizione il luogo in cui è garantita la partecipazione di ciascuno all’attività produttiva, è anche vero che, scrive il filosofo di Stoccarda, esso funziona solo «in generale», nel senso che prescinde dalle vicende «particolari» dei singoli, che possono anche andare in rovina. Ma la società – prosegue Hegel – «non deve funzionare solo in generale, gli individui sono un fine in quanto particolarità, e in quanto tali hanno diritti». È il lavoro stesso, più in particolare, che deve affermarsi come diritto: non nel senso illuministico o giusnaturalistico del termine, ma proprio come strumento necessario dell’emancipazione umana.
Naturalmente, rivendicare un `diritto al lavoro’ non era che il primo passo. Questa rivendicazione, infatti, prendeva corpo in una società ancora fondata su basi antagonistiche, sulle quali – come spiegò Marx – il diritto al lavoro non è che una «prima goffa formula in cui si riassumono le rivendicazioni rivoluzionarie del proletariato». A essere precisi, com’è Marx in Lotte di classe in Francia, «il diritto al lavoro è nel senso borghese un controsenso, un meschino, pio desiderio; ma dietro il diritto al lavoro sta il potere sul capitale, dietro il potere sul capitale sta l’appropriazione dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe operaia associata, e quindi l’abolizione del lavoro salariato, del capitale e dei loro rapporti reciproci». La rivendicazione del diritto al lavoro, insomma, stava e cadeva insieme alla possibilità che si superasse la separazione tra produttori immediati e mezzi di produzione, separazione su cui si basa il modo di produzione capitalistico; postulava che la trasposizione della forza produttiva sociale avvenisse non più sul (solo) capitale, ma anche su qualcos’altro, che potesse farsi carico di quell’«universalità» intesa come «sintesi concreta delle particolarità» di cui il mercato – luogo dell’astratto per eccellenza – non riusciva a venire a capo. E questo `qualcosa’, che già esisteva ma che adesso doveva essere caricato di compiti nuovi, è ciò che Hegel (ma anche Marx, fin dalla Questione ebraica) individua nello `Stato’.
Qui si rovescia il canone di razionalità prevalso per tutto il secolo XIX (e si conferma la correttezza della tesi generale di Hegel circa il modo in cui la razionalità s’incarna nella storia). Nell’esortazione affinché lo Stato intervenga nel processo economico per assicurare il diritto al lavoro si può leggere, in filigrana, la denuncia del movimento operaio (l’«erede della filosofia classica tedesca») del fatto che la credenza nella «mano invisibile», vale a dire la forma della razionalità che aveva informato di sé la prassi delle società ottocentesche, è diventata, per usare le parole con cui Engels commenta Hegel, «irrazionale». E si tratta, si badi, non di un vizio d’origine della razionalità ottocentesca, ma di una «irrazionalità sopravvenuta». In un contesto storico dominato da monarchie assolute e parassitarie e da lacci e lacciuoli di tipo feudale, sostenere – come aveva fatto Adam Smith – che ciascun individuo avrebbe potuto giudicare molto meglio del sovrano «cosa, come e per chi produrre» e denunciare, per contro, l’estrema pericolosità di affidare allo Stato il compito di indirizzare i privati circa il modo di impiego dei loro capitali era assolutamente razionale: non per caso Marx ed Engels inaugurano il Manifesto con il più sfegatato elogio che sia mai stato scritto della borghesia. Ma anche la razionalità borghese, non meno di tutte le altre cose del mondo, è degna di scomparire: la prassi sociale che essa ispira può assolvere al compito di portare la società dalla miseria materiale alla soglia della potenziale abbondanza, ma è incapace di compiere il passo successivo e rendere l’abbondanza effettivamente disponibile per i tutti i suoi membri.
§
Sono questi i motivi per cui, a partire dal secondo dopoguerra, l’affermazione del diritto al lavoro come strumento per l’emancipazione individuale si accompagna all’espansione del Welfare State. Qui, però, viene il difficile. Se gli individui sperimentano il fallimento del mercato rispetto alla soddisfazione dei propri bisogni riproduttivi e demandano all’organizzazione statuale il potere di provvedervi, sia pure pro parte, devono anche trovare un modo per ordinarli gerarchicamente, stante la loro eterogeneità e conflittualità potenziale. Per fare solo un esempio, devono dotare lo Stato del potere di decidere se, di fronte all’impossibilità di soddisfare congiuntamente la richiesta di avere un dottore e quella di avere un insegnante, quest’ultima sia più meritevole della prima o viceversa. E quali sono, allora, le condizioni perché la scelta pubblica tra bisogni diversi consegua effettivamente il benessere della popolazione? E, per contro, come si fa ad evitare che il dirigismo statuale si trasformi in dittatura?
In ciò, precisamente, consiste il problema posto da Kant a proposito del passaggio dalla «natura» alla «storia» (onde avrebbe avuto ragione Marx a dire che con il capitalismo si sarebbe chiusa «la preistoria della società umana»). Come spiega Burgio, mentre in Kant la «natura» si caratterizza per il dispiegarsi di una logica immanente alla stessa realtà, sì da configurarsi come «processo senza soggetto», la «storia» propriamente detta si connota non solo per la comparsa di una volontà consapevole dei propri fini (e perciò capace di «moralità»), ma soprattutto per il fatto che subentra una razionalità collettiva che modifica «l’essenza dell’egoismo, costringendo i soggetti (individuali e collettivi) a definire le proprie finalità in forma sempre meno angusta (cioè sempre meno inconciliabile con le finalità altrui e in questo senso sempre meno irrazionali)». Ma al di là della formula kantiana (e di altre consimili che si trovano in Hegel), come può formularsi l’ordine di importanza dei diversi bisogni della comunità? Quale dev’essere il criterio di scelta fra usi alternativi delle medesime risorse? Il problema, com’è evidente, è quello di produrre una forma della soggettività che possa trascendere i limiti conoscitivi e dell’agire intrinseci all’individuo singolo; diversamente, è probabile che, di fronte alle difficoltà di conoscere le diverse esigenze della popolazione e di trovare un vasto accordo circa la loro importanza relativa, si faccia avanti il dittatore profetizzato da von Hayek: un «superuomo» che ordinerà personalmente i diversi bisogni dei membri della società secondo le sue opinioni circa i loro meriti e si risparmierà la fatica di scoprire quello che la gente realmente preferisce, evitandosi il compito impossibile di combinare le scale di valori individuali per formare una scala comune concordata.
Ora, io credo che, a partire dal secondo dopoguerra, siano stati i partiti politici a farsi carico di costruire, nelle società occidentali, questa diversa forma di soggettività, capace di affrontare i problemi legati alla riproduzione sociale su questa prima (rozza) base `comunitaria’. I programmi con i quali essi si scontravano alle elezioni alludevano alla necessità di selezione e di ordinamento gerarchico dei bisogni collettivi in lotta tra loro; le loro strutture organizzative, legate da una continua osmosi con la società, costituivano i sensori di un diverso modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale: un modo di produzione che riproduceva la comunità ad un livello incomparabilmente più alto (anche se inevitabilmente meno `immediato’) rispetto alla limitatezza con cui essa compare agli albori dell’umanità, e in cui si cominciava a sperimentare il modo di rendere i desideri e le azioni individuali mutuamente compatibili ex ante, piuttosto che affidarsi al giudizio ex post scaturente dalla loro fortuita interazione attraverso lo scambio mercantile.
Sulla crisi che ha investito questi primi strumenti della razionalità collettiva molto si è scritto e non è questa la sede per discuterne. Mi limito solo a rilevare che, andati in crisi i partiti, si assiste, da un lato, al riaffermarsi di pratiche neoliberiste (cui si accompagna il ripiegamento di ciascuno nello spazio ristretto del proprio privato arbitrio, separato dal resto della comunità e a questa sottomesso solo per tramite del denaro); dall’altro lato all’evocazione di fantastiche `comunità originarie’, fonti di identità certe e luogo di rapporti `autenticamente umani’, da additare a mo’ di terra promessa per i `naufraghi dello sviluppo’; il tutto mentre, da destra come da sinistra (compresa quella `antagonista’), si invita lo Stato a `fare un passo indietro’, retrocedendo al rango di semplice `guardiano notturno’ o, nella migliore delle ipotesi, di soggetto erogatore di prebende monetarie (siano esse finanziamenti pubblici alle scuole private o fantomatici redditi di cittadinanza), e si denuncia l’irrazionalità, addirittura `originaria’, di ogni pratica sociale precedente che intendesse farne il luogo di sperimentazione di un diverso modo di produrre e distribuire la ricchezza.
Che dire? Se quanto suggerito da Burgio avesse (come credo) fondamento, dovremmo riconoscere che non è la prima volta in cui la società si trova di fronte ad un’impasse del genere e vedere nella crisi null’altro che una conseguenza del pregresso sviluppo della prassi sociale (e dico `sviluppo’ pensando all’aumento della vita media, dell’istruzione, del tenore di vita ecc., che abbiamo conseguito nel secolo or ora concluso). E dovremmo adoperarci per capire in che modo sia possibile suscitare una `volontà collettiva’ capace di superare il carattere indiretto (ancorché transitoriamente necessario, come spiegava Marx) di quella prima forma di elaborazione dell’individuo sociale generale e consapevole che era stata conseguita trasponendo sullo Stato le forze produttive sociali. Provando di nuovo a costruire, come suggerisce Burgio, «mappe per definizioni provvisorie, utili all’orientamento pratico». Senza avere l’ambizione, di Kant e di Hegel, di «penetrare il senso e le riposte finalità del processo storico», ma senza nemmeno rinunciare al tentativo marxiano «di catturarne i fattori dinamici determinanti allo scopo di assumerne il controllo» (senza di che, ad esempio, parlare di riequilibrio planetario delle risorse, del lavoro e dei consumi è solo «un meschino pio desiderio»). Anche perché, se di fronte alle difficoltà in cui si è imbattuta la nostra razionalità collettiva si reagisce negando la «razionalità del reale», si rischia di riaprire la porta all’irrazionalismo, esattamente come accadde nei primi trent’anni del Novecento di fronte alla crisi della razionalità ottocentesca, con esiti che dovremmo veramente ricordare. Purtroppo, è quanto invece sta accadendo.
Ma allora, perché meravigliarsi del fatto che metà degli italiani `crede’ in Berlusconi se uomini colti e intellettualmente avvertiti credono nelle balle mitiche di Tönnies e Spengler, Céline e Jünger, Koestler e Heidegger?
1) Alberto Burgio, Strutture e catastrofi. Kant Hegel Marx, Roma, Editori Riuniti, 2000, pp. 295, lire 35.000.