La civiltà perduta a Babilonia

Antichi insediamenti mesopotamici, città storiche e mirabili come Ur, Uruk, Ninive e Babilonia, un patrimonio archeologico immenso. Già strangolata da un embargo che aveva portato allo smembramento del Dipartimento delle Antichità, oggi la Terra dei due fiumi, l’Iraq, rischia di soccombere definitivamente. Sotto una pioggia di missili e granate ma anche sotto l’incombente minaccia di nuovi e indiscriminati saccheggi.

L’odierna invasione e i bombardamenti in Iraq hanno riaperto scenari e riproposto quesiti identici a quelli di tredici anni fa, all’epoca della prima guerra del Golfo. Di nuovo, e con maggiore enfasi, il drammatico contrasto tra la dichiarata ma in realtà insufficiente intelligenza di missili, bombe, e altri sofisticati strumentari di distruzione, e la effettiva o presumibile minaccia di danni o distruzioni dell’immenso patrimonio archeologico e storico-artistico conservato in territorio iracheno, ha stimolato una messe di interventi, commenti e pareri – a vario livello di competenza e aggiornamento – da parte di esperti e meno esperti del settore. La Terra dei due fiumi – con le sue antiche mirabili città (Ur, Uruk, Ninive, Babilonia, Assur, Seleucia, Ctesifonte, e altre a scelta), con i suoi tesori artistici ed epigrafici custoditi nel Museo di Baghdad e in altri musei locali (primo tra i quali quello di Mossul) – si è dunque ripresentata all’attenzione del grande pubblico, nel contesto di un convulso panorama bellico in continua e drammatica evoluzione.

Siamo ormai abituati al macabro spettacolo di analoghi orizzonti di morti e rovine, esito di strategie offensive che in tempi recenti hanno in varia misura impegnato, con l’avallo e la copertura formale delle organizzazioni sovranazionali, l’apparato militare statunitense e quello dei suoi alleati europei. E tuttavia, l’eccezionale accumulo di testimonianze relative alle antiche civiltà vicino-orientali, che dai palmeti di Bassora ai rilievi pedemontani del Kurdistan trovano oggi in Iraq la loro più spettacolare concentrazione, costituisce un elemento aggiuntivo di preoccupato interesse per le sorti di un paese già strangolato da oltre dieci anni di embargo.

Piuttosto che fornire l’ennesimo raffazzonato elenco dei maggiori siti archeologici e delle sedi museali potenzialmente a rischio, è preferibile offrire alcuni spunti di riflessione basati su un’effettiva correlazione geografico-ambientale tra lo scacchiere delle operazioni militari presentemente in atto (ovvero pianificate a breve scadenza, salvo sorprendenti e disdicevoli imprevisti) e la dislocazione sul terreno degli antichi insediamenti mesopotamici.

L’odierna conformazione geo-morfologica del territorio iracheno è più o meno la stessa di quella documentata già a partire dal periodo neolitico (7000 a.C.): le principali differenze concernono il percorso dell’Eufrate, che – a partire dalla zona dove oggi sorge Baghdad – originariamente scorreva un centinaio di chilometri più a est, non si univa al Tigri all’altezza di Qurnah, dove oggi inizia il tratto comune (lo Shatt el Arab) e sfociava nel Golfo Arabo-Persico nei pressi dell’odierna Nassiriya, lì dove arrivava l’antica linea costiera, progressivamente arretrata in conseguenza dei depositi alluvionali trasportati dai due grandi fiumi.

Un rapido sguardo al quadro delle ostilità in corso nel sud e in preparazione nel nord del paese e, in particolare, la messa in pianta dei vari percorsi delle truppe di terra con destinazione finale Baghdad, rivela significative analogie con invasioni e conflitti che hanno caratterizzato cinquemila anni di storia mesopotamica. Il problema cruciale per chi proviene dall’area desertica meridionale (l’odierno Kuwait) è l’attraversamento dell’Eufrate: gli americani sono da vari giorni impegnati a conquistare Nassiriyah, vitale centro strategico sulla riva orientale del fiume, da dove si può avanzare verso nord-ovest, percorrendo i trecento chilometri di pianura che distano da Baghdad. In alternativa, si può procedere lungo la riva destra dell’Eufrate scegliendo un punto di attraversamento più vicino alla capitale: questo è il secondo itinerario delle truppe anglo-americane, che sono giunte a Najaf, hanno proseguito fino a Karbala e ora puntano verso Musayyib per varcare il fiume e posizionarsi a soli 80 chilometri dalla periferia di Baghdad. La progettata invasione dal fronte settentrionale prevede tre direttrici di marcia, i cui punti iniziali – in sequenza est-ovest – sono le città di Sulamaniya, Erbil (e, più a sud, Kirkuk) e Mossul – quest’ultima se e quando sarà conquistata o comunque controllata dalle truppe americane. La via di Mossul procede a ridosso della riva occidentale del Tigri; la via di Erbil e Kirkuk taglia in direzione sud la pianura situata a est del Tigri stesso; la via di Sulamaniya si dirige a sud-est e raggiunge la valle del Diyala, massimo affluente del Tigri, di cui segue l’intero corso fino alla periferia meridionale di Baghdad.

Questi itinerari, nodo cruciale delle opzioni strategiche connesse con le odierne operazioni militari, hanno rappresentato il veicolo primario, e sostanzialmente immutabile, dell’interscambio culturale, delle relazioni commerciali e, non da ultimo, delle vicende belliche che, nell’arco di tre millenni, hanno caratterizzato la storia mesopotamica. La valle dell’Eufrate, nel suo lungo percorso dalla desolazione del deserto siro-arabo sino alle fertili coltivazioni del meridione, è sempre stata una precisa linea di confine, fisica e ideologica, tra il centro – sede di civiltà – e il mondo esterno, incolto, alieno, ostile. La via centrale della pianura delimitata dall’alveo dei due fiumi (e, un tempo, dalla fittissima rete dei canali) è stata percorso di guerra sia nei conflitti interni tra le varie città-stato dell’antico paese di Sumer sia nelle periodiche invasioni da parte dei nemici stanziati nella regione a est del basso corso del Tigri (l’odierna provincia di Ahvaz, nell’Iran sud-orientale). Le vie di Mossul e di Erbil sono i percorsi obbligati per qualsiasi collegamento tra Assiria (la regione compresa tra l’alto corso del Tigri e i suoi due affluenti orientali, il Grande e Piccolo Zab) e Babilonia: è in questa zona che si è concretizzata la millenaria conflittualità tra i due grandi poli della civiltà mesopotamica, culminati con la distruzione totale di Babilonia da parte di Sennacherib (689 a.C.) e quella di Ninive da parte di Caldei e Medi (612 a.C.).

Veniamo al presente: quali sono i principali siti archeologici localizzati lungo le direttrici dell’invasione anglo-americana e a quali rischi vanno incontro?

Nelle immediate vicinanze di Nassiriya, a poca distanza dalla riva occidentale dell’Eufrate, si trovano i grandi insediamenti protostorici di Eridu e Ubeid – massimi centri dell’evoluzione tecnologica e culturale successiva alla fase neolitica – e le rovine della città di Ur, capitale di un vasto impero che alla fine del terzo millennio esercitò un saldo ed efficientissimo dominio sull’intera Mesopotamia e regioni adiacenti, dall’altopiano iranico sino alla Siria. I colossali resti della ziggurat, edificata da Ur-nammu – primo sovrano della dinastia di Ur – si ergono in suggestivo isolamento nell’immensità della pianura ormai completamente desertificata. Poco più a ovest, sulla riva opposta dell’Eufrate, è situata Uruk, la prima città della Mesopotamia e, in assoluto, del mondo antico: è in questo sito che, alla fine del quarto millennio, giunse a compimento la cosiddetta «rivoluzione urbana», che introdusse la specializzazione e la divisione del lavoro, la segmentazione delle classi sociali ed economiche, il perfezionamento delle tecniche – culminate con la fondamentale invenzione della scrittura. Le direttrici di marcia che da Nassiriya puntano verso Baghdad, seguendo un percorso mediamente situato 100 chilometri a est della valle dell’Eufrate, incontrano una sequenza ininterrotta di antichi insediamenti, riportati alla luce nel corso di oltre un secolo di attività archeologiche, dalla fine dell’ottocento sino alla paralisi causata dall’embargo del 1991.

Questi i siti di maggiore interesse, lungo la via che da Nassiriya si dirige verso Diwaniya e poi Hilla: Larsa, Lagash, Fara, Umma, Isin, Adab, Drehem e Nippur: sono i massimi centri della cultura sumerico-accadica le cui fondamentali testimonianze architettoniche, artistiche ed epigrafiche si collocano in un ampio e differenziato orizzonte cronologico che globalmente si estende dalla prima metà del terzo millennio al VII-VI secolo a.C. Non più di dieci chilometri separano Hilla dalle immense e tuttora largamente inesplorate rovine di Babilonia: gli antichi scavi tedeschi e i moderni restauri iracheni – cui vanno aggiunte alcune mostruosità edilizie a suo tempo edificate, in piena area archeologica, per il personale diletto del nuovo Nabucodonosor di Tikrit – offrono un’immagine solo parziale della più celebre città del Vicino Oriente preclassico. Nella vasta e irregolare distesa di pianori, colline e avvallamenti, di informi monticoli, sentieri e fossati, è oggi pressoché impossibile identificare i resti decomposti e livellati dell’antico insediamento. Il caso di Babilonia esemplifica al meglio la natura e l’entità del rischio cui vanno incontro le antichità conservate in territorio iracheno, di fronte alla massiccia avanzata di truppe e mezzi pesanti al di fuori dei precari e insicuri moderni tracciati viari, e cioè l’irriconoscibilità topografica di molti siti archeologici in tutto o in parte ancora da scavare.

Lo scenario del fronte settentrionale presenta un ulteriore fattore di rischio, derivante dalla localizzazione di alcuni antichi insediamenti rispetto agli odierni centri urbani. Ninive, la mitica capitale dell’impero assiro, si trova sulla riva orientale del Tigri, di fronte a Mossul, di cui anzi rappresenta uno dei quartieri centrali, ormai estesamente edificato proprio all’interno dell’immensa cerchia di mura che un tempo circondavano l’antica città. Kirkuk ed Erbil sorgono direttamente sopra i resti di due antiche città, ancora da scavare: Arraphe, la capitale di uno stato vassallo del gran regno di Mittani (XV-XIV secolo a.C.), e Arbail, uno dei massimi centri religiosi e culturali di epoca neo-assira. E’ del tutto superfluo esemplificare i presumibili danni che verrebbero causati da incursioni aeree e combattimenti sul terreno: è quanto del resto si sta verificando a Mossul, da vari giorni oggetto di pesanti bombardamenti.

Ma una diversa e ben più grave minaccia incombe su questo straordinario patrimonio archeologico e storico-artistico: il saccheggio generalizzato e l’esportazione clandestina delle antichità di ogni tipo disseminate per ogni dove, sopra e sotto il suolo iracheno, ivi incluse le grandi e piccole collezioni custodite nei vari musei regionali.

Sino al 1990 la capillare organizzazione del Dipartimento delle Antichità aveva virtualmente impedito scavi clandestini e traffici illeciti. Non sembra che le operazioni militari a suo tempo condotte durante la Guerra del Golfo abbiano arrecato seri danni ai siti archeologici e ai monumenti situati nella zona centro-meridionale del paese; al contrario, le conseguenze di tredici anni d’embargo sono state devastanti: smembrata l’organizzazione del Dipartimento delle Antichità, a corto di personale e priva di risorse tecniche e finanziarie, perso quasi del tutto l’effettivo controllo del territorio, si è scatenata una irresistibile caccia al tesoro da parte di singoli individui costretti a procurarsi qualcosa da vendere per ovviare alla miseria delle proprie famiglie.

Migliaia di tavolette cuneiformi, sigilli cilindrici e manufatti di ogni tipo sono giunti a Londra o in altri grandi centri del mercato antiquario, per essere poi ceduti – per via d’asta o a trattativa diretta – a collezionisti privati. La pioggia di missili, bombe e granate ha ora momentaneamente interrotto le attività dei clandestini, ma non c’è dubbio che lo scempio riprenderà, più intenso e sistematico di prima, non appena il nuovo ordine regnerà sulla Terra dei due fiumi.