Cinquant’anni fa nasceva l’Arci. I suoi antenati hanno origini ancora più antiche: le ottocentesche Società di mutuo soccorso e poi le Case del popolo. Con più di un milione di iscritti, l’Arci è la più importante forma organizzata che in Italia si è dato l’associazionismo. E’ stata luogo di ricreazione, cultura, politica, una casa comune della sinistra. In alcune fasi della sua storia – i più recenti – è stata soggetto promotore di conflitto sociale. «Un altro mondo è possibile», dice il suo presidente Paolo Beni, «è entrato nel dna dell’Arci». Ora la fase politica è cambiata, al governo non c’è più Berlusconi. A Beni chiediamo di spiegarci se, e come, sta cambiando l’Arci.
Mezzo secolo di Arci e di storia d’Italia e della sinistra. Cosa resta delle origini?
Abbiamo tenuto vivo il principio fondativo: l’associazionismo popolare e democratico. Siamo stati una palestra di democrazia per intere generazioni. Gli anni ’70 ci hanno visto in prima fila nella lotta per il divorzio e i diritti civili; poi gli anni ’80 e il pacifismo; negli anni ’90 è esplosa la crisi della politica, ma sono anche cresciuti il volontariato, la partecipazione – con il Forum del Terzo settore e la Banca etica – e il confronto tra forze laico-socialiste e cattolico-popolari.
Ma è da Seattle e dalla «guerra umanitaria» del Kosovo che il vostro ruolo di collante e mediazione diventa centrale. E’ anche grazie a voi se le anime e le espressioni più diverse del conflitto sociale si sono tenute insieme nel quinquennio berlusconiano.
Noi abbiamo accettato la sfida dei movimenti, abbiamo scommesso sulla critica al modello sociale e politico portato dalla globalizzazione liberista, contribuendo ad allargare la partecipazione alla vita politica. In questi anni è cambiato il senso comune del paese e s’è affermata la cittadinanza attiva, aprendo una strada opposta a quella della separatezza della politica.
E’ finita quella stagione? Forse quella strada era percorribile solo quando al governo c’erano le destre?
Non lo credo. Si è aperta una fase nuova, sicuramente difficile. Per anni siamo riusciti a mettere al centro i contenuti, realizzando la convergenza di forze e culture diverse, a prescindere dalle appartenenze e dalle ideologie. Il punto più alto l’abbiamo toccato al Forum sociale europeo di Firenze, da cui è nata quella mobilitazione pacifista che qualcuno ha chiamato la seconda potenza mondiale. Oggi quella capacità di convergenza sui contenuti marca il passo e in alcuni settori del movimento torna a prevalere l’appartenenza. C’è chi pensa che con un governo di sinistra non si debba disturbare il manovratore e c’è chi interpreta l’autonomia come un dovere a schierarsi sempre e comunque contro. Sono due derive pericolose.
Forse il governo «amico» c’entra qualcosa con questi processi. La tua dichiarazione dopo la fiducia ottenuta dal governo poteva essere titolata «la città è salva». La vostra autonomia tentenna?
Io credo che il governo dell’Unione sia anche frutto della straordinaria stagione di lotte per la pace, il lavoro, i diritti e non soltanto un composito cartello elettorale. La domanda è se il governo rappresenti, e quanto, i movimenti di quella stagione. E se invece non spunti una diffidenza verso la critica e il protagonismo sociale. Guai se la sinistra perde il rapporto con la realtà e il governo si chiude a Palazzo Chigi.
Guai, certo, ma i segnali sono questi.
Noi non rinunciamo alla nostra autonomia di giudizio. E’ vero, la città è salva perché il cammino nuovo che è iniziato può continuare. Però è un cammino reso difficile dal fatto che il governo rischia di restare prigioniero dei poteri forti, penso alla pesante ingerenza della Chiesa cattolica, o alle forze imprenditoriali. Per uscire da questa gabbia bisogna rivitalizzare il rapporto con la società, sapendo che la contestazione sociale può rafforzare il governo. Nei movimenti dobbiamo rimettere al centro i contenuti.
Se il dissenso arriva in aula viene criminalizzato, espulso. Non ti fa impressione la caccia aperta dalla sinistra al dissenso?
Se i voti di dissenso mettono in crisi il governo, oggettivamente provocano un arretramento. Il mandato degli elettori è chiaro: la maggioranza del paese non vuole ritorni al passato, a Berlusconi.
La crisi della politica chiude spazi alla partecipazione. C’entrano qualcosa il nascente Partito democratico e il tentativo di semplificazione dello scenario politico?
Non so, mi sembra ci sia la tendenza a cercare scorciatoie alla crisi della politica, che ha radici in un modello di società che produce solitudine competitiva e appannamento delle responsabilità pubbliche. Quando la politica smette di essere pratica diffusa e diventa una prerogativa ristretta di una cerchia di attori, e i cittadini spettatori, i partiti rischiano di assorbire tale idea e la politica finisce per occuparsi solo di se stessa, di meccanismi elettorali, invece di lavorare alla trasformazione della realtà. Chiediamo tanto al Partito democratico quanto alla Sinistra europea se hanno davvero l’obiettivo di ricostruire un rapporto tra politica e cittadini.
L’Arci sosteneva il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Lo pensa ancora?
Non abbiamo cambiato giudizio sulla missione che è figlia della guerra. Ma siamo realisti, l’uscita immediata e unilaterale non è praticabile. Serve una tregua subito. L’Italia deve portare alla Nato e all’Onu l’esigenza di cambiare strategia e natura della missione. Bisogna restituire la parola alla politica, lavorare per una conferenza di pace e dare un ruolo alla società civile afghana. La presenza militare è ancora necessaria, ma cambiando la natura della missione che deve garantire la protezione dei civili. Con una battuta, dall’Afghanistan dovrebbero andarsene gli americani e non gli italiani.
Partecipereste a un «tavolo permanente» con il governo, ventilato dal ministro Parisi che si dice pronto al confronto con «qualche» componente del pacifismo?
Tutti i luoghi di confronto sono utili, siamo pronti a partecipare con tutti i nostri temi, compresi quelli critici.