Sul mercato 200 miliardi di dollari in azioni dì 42 imprese Ma il governo manterrà il controllo dei giganti industriali
Dall’energia all’elettronica. Un intervento al cuore dell’industria che una volta rispondeva alle scelte del collettivismo comunista e che si caratterizzava per grave inefficienza ma pure per la garanzia di occupazione sicura che poteva offrire a milioni di lavoratori. La musica adesso cambia. Si recidono i legami con le politiche della pianificazione ordinata dal centro e si aprono per 42 imprese di Stato (Soe, State Ovìned Enterprises) le porte della parziale privatizzazione e internazionalizzazione.
È un piano di smobilitazione che, perle sue dimensioni, non ha eguali nella storia recente. Non solo della Cina ma del capitalismo occidentale. L’annuncio ufficiale è di ieri ma già se ne erano ascoltate le premesse nel discorso del premier Wen Jiabao, in marzo, all’Assemblea nazionale del popolo, l’organo che svolge funzioni legislative.
Duecento miliardi di dollari in azioni passeranno dalle mani dello Stato cinese a quelle dei privati. Un collocamento che non si traduce in una svendita totale di 42 grandi imprese (quanto a dimensioni pensiamo a un raffronto con Eni, Enel, Telecom, Fiat) ma che ha diversi obiettivi. Sia politici sia economici.
II messaggio che la Cina spedisce ha un significato preciso: esso ribadisce con una forza straordinaria che il gigante asiatico è a pieno titolo uno degli ingranaggi fondamentali e oggi più dinamici della economia mondiale. Che è poi in grado di acquisire negli Usa e in Europa, o in Asia e in Africa, aziende e marchi storici (è bene ricordare che la Lenovo si è presa i portatili della Ibm) ma che sa e intende esercitare un richiamo efficace anche per gli investitori stranieri. Inoltre, che seppure con mille antagonisti interni, derivanti da una sperequazione enorme nella distribuzione delle ricchezze, Pechino è sempre più intenzionata a giocare un ruolo da «locomotiva» nel Continente in concorrenza con Giappone e Corea del Sud.
L’operazione è di così ampia portata che se ne possono in ogni caso intuire le diverse ragioni. Prima fra tutte la volontà di aprire un flusso di capitali dall’estero allo scopo di trasferire risorse e investimenti dello Stato verso i settori poveri della sua economia.
Operazione che ha in sé la valenza politica di controllare i conflitti sociali interni e di ricercare stabilità attraverso la leva della crescita del reddito delle fasce di popolazione marginali. I motivi che hanno convinto il governo cinese a dare il via a questo piano da 200 miliardi di dollari non si esauriscono qui: c’è, nell’annuncio che lo ha accompagnato, dell’altro vi si scorge la risposta affermativa alle richieste che provenivano tanto dai mercati internazionali quanto dai settori più liberisti dell’establishment. Ed è indubbiamente un colpo ad effetto che dimostra nella sua grandiosità l’integrazione sempre più marcata della Cina nei meccanismi della globalizzazione. Basta dare un’occhiata ai settori che saranno investiti da questa opera di privatizzazione – parziale perché non toglierà allo Stato il controllo delle imprese coinvolte ma comunque importante – per capire quanto sia profonda e reale la volontà di Pechino di allinearsi ai Paesi industrializzati di proseguire a passi velocissimi lungo la strada che immette nel club dei governi che decidono le sorti delle economie mondiali.
La lista, per fare un paio di esempi significativi, si apre con la Baoshan, pilastro mondiale della produzione dell’acciaio e con la Electric Power Company, holding nel settore della produzione di energia, la stessa che sta costruendo nel Sud del Paese la diga delle Tre gole, la più grande e la più contestata del Pianeta. Ma prosegue con le aziende della chimica, dell’elettronica, della farmaceutica, della cantieristica navale, del petrolio. È un passaggio, quello della riforma delle Soe (State Owned Enterprises) che l’economia cinese aveva già affrontato nel 1993 e 1994, legalizzando il licenziamento sia pure attraverso ammortizzatori sociali di milioni di lavoratori «garantiti» nelle imprese di Stato ma che mai è riuscita a completare. Si era «liberata» della zavorra costituita da imprese in grave perdita e si era concentrata su circa 500 imprese capaci di realizzare profitti.
Oggi comincia ad aprire questi «santuari» dell’industria ai privati. II Governo di Wen Jiabao ha chiesto al1’Authority di supervisione delle Soe di indicare il limite minimo di azioni necessarie per mantenere il controllo delle aziende ma l’ha sollecitata a identificare le procedure per la privatizzazione dell’eccedente.
Una tappa rilevante. Pechino accelera sul fronte della riforma economica. E con ciò rende più acuta la contraddizione fra questo processo di liberalizzazione e il clima di perdurante oppressione politica.