La Cina ora punta a un modello più evoluto

Se la risorsa più importante di un governo è la credibilità, quello cinese sta dimostrando di averne molta. La nuova legge sul diritto del lavoro non ha ancora avuto il tempo per essere messa in pratica – è entrata in vigore il primo gennaio – che già alcune multinazionali hanno annunciato di voler emigrare altrove. Soprattutto nel vicino Vietnam.La nuova legislazione prevede tutele più efficaci per i lavoratori (salario minimo, obbligo di pagamento degli straordinari, liquidazione per i licenziati, maggiori difficoltà per le assunzioni temporanee, ecc), ma soprattutto rientra in un quadro più generale di riforme economiche prese per «raffreddare» l’impetuosa e disarticolante crescita produttiva; ma anche per smussare le contraddizioni sociali più vistose (l’obiettivo fissato dall’ultimo congresso del Partito comunista è non a caso la «società armoniosa»). Le drastiche misure (comprese alcune condanne a morte) prese per recuperare l’appetibilità delle merci cinesi dopo alcuni scandali – giocattoli e alimenti pericolosi – hanno dato la conferma della ferma volontà del governo di ottenere risultati concreti. A completare il quadro è arrivata anche una riforma fiscale che ha abolito i bonus per gli investitori stranieri (tassazione ridotta al 15%), unificando l’imposizione sui redditi di impresa al 25% (per le aziende di proprietà cinese era al 33).Non va neppure sottovalutato l’impatto della rivalutazione dello yuan, che va riducendo il margine di profitto. Da quando – nel 2005 – è stata introdotta una sorta di «fluttuazione controllata» della moneta, sganciandola dal rigido rapporti di cambio con il dollaro, lo yuan si è apprezzato del 12,5%. Secondo diversi analisti potrebbe ancora crescere del 10% nel solo 2008. «Raffreddare» l’economia può sembrare un controsenso, qui in Europa, dove il tasso di crescita sembra alto quando – non sempre – supera il 2%. Ma in un paese in cui da sei anni si viaggia al ritmo delle due cifre – per il 2008 è previsto un «rallentamento». dall’11,5% dell’anno scorso al 10,8 – il rischio di deragliamento è alto. Sia dal lato dell’inflazione (i generi alimentari sono aumentati del 18,2%, con picchi del 56% per la carne di maiale e del 38,8 per il pollame), che da quello della creazione di «bolle» (come l’immobiliare nelle grandi città).E per le multinazionali di ogni continente venne il momento di rifare i conti. Perché una cosa sono i «diritti umani» da sostenere retoricamente, un’altra è un diritto minimo, ma concreto, nei rapporti di lavoro. Immediatamente alcuni analisti hanno quantificato l’aumento del costo del lavoro in Cina potenzialmente derivante dalla nuova legge: +40%. I primi a muoversi sono stati Olympus – il quarto produttore mondiale di fotocamere – e la Yue Yuen Industrial, vero produttore di scarpe poi rivendute con sopra marchi più prestigiosi (Nike, ad esempio). Stanley Lau, vice-presidente dell’associazione industriale di Hong Kong, ha ammesso che assisteremo alla chiusura di altre fabbriche, perché la nuova legge rende più difficile l’assunzione temporanea». Sembra di sognare, mentre qui da noi avviene l’opposto.I massimi dirigenti del paese non sembrano affatto sorpresi da queste prime fughe. Zhang Yansheng, responsabile dell’istituto di ricerca della Commissione per le riforme e lo sviluppo, ha commentato serafico: «queste sono le regole dell’economia di mercato». Ma dietro questa flemma c’è un’idea del paese che si vuole costruire: «Le industrie con un’intensità del lavoro troppo alta dovranno uscire dal paese. La Cina deve avere un apparato industriale di livello più alto. La fabbrica del mondo non deve basarsi su lavoratori di bassa qualità».Par di capire che solo gli incompetenti (capitalisticamente parlando) possono sperare di «competere» deprimendo il costo del lavoro. L’esperienza cinese dice infatti che «i vantaggi dati dal basso costo del lavoro si sono trasformati in un’insano modello di crescita». Qualcuno avverta i liberisti di casa nostra.