La Cina cerca spazio… in Europa

Alla vigilia del primo lancio di un astronauta cinese nello spazio, la Cina ha chiamato l’Europa. Il documento «strategico » del governo cinese sull’Europa pubblicato a Pechino il 13 ottobre è quasi una dichiarazione d’amore. Non ha precedenti. Per i cinesi l’Europa era sempre stata molto lontana (anche quando una generazione di europei delirava sulla «Cina vicina»). Vent’anni fa Deng Xiaoping mi aveva spiegato che la considerava sostanzialmente come il terreno di battaglia, il teatro e la posta della possibile futura guerra mondiale tra i soli due che contavano davvero: Usa e Urss. E dire che lui da giovane in Europa c’era stato (aveva fatto l’operaio alla Renault di Billancourt; Mao Tse-tung non ci aveva messo neanche piede). Per oltre mezzo secolo si erano limitati a posizionarsi tra quelli che ritenevano i protagonisti principali. Ora, per la prima volta in assoluto, Pechino indica invece l’Europa come la superpotenza mondiale emergente, decisiva nella politica e nell’ economia mondiali. Destinata a soppiantare sia gli Stati Uniti che il Giappone principale partner commerciale e investitore in Cina. Nel documento, la Cina si dichiara convinta che l’integrazione europea sia «irreversibile», plaude al successo delle sua moneta, considera l’Europa «forte e la più integrata comunità nel mondo», nota che già ora rappresenta «il 25% dell’economia e il 35% del commercio mondiali», e che quando dall’anno venturo sarà allargata a 25 avrà 450 milioni di abitanti e un prodotto globale di oltre 10.000 miliardi di dollari, cioè di ordine di grandezza pari a quello Usa. E aggiunge, abbastanza esplicitamente, che preferisce come partner l’Europa a Usa e Giappone, non solo perché in questo momento «i rapporti tra Cina ed Unione europea sono i migliori che ci siano mai stati in tutta la loro storia», ma anche perché «non esiste alcun fondamentale conflitto di interessi tra Cina ed Europa, e nessuna della due parti rappresenta una minaccia per l’altra » (sottinteso che lo stesso non si può dire del Giappone, con cui hanno fatto una guerra, né degli Stati uniti con cui potrebbero scontarsi nell’unico conflitto di portata davvero mondiale che si possa concepire da qui a metà del secolo). In Occidente, in particolare negli ambienti economici, ci si divideva una volta tra chi «scommetteva» sulla Cina e chi no. La novità è che ora è la Cina a «scommettere» sull’Europa. E proprio nel momento in cui le economie del vecchio continente scricchiolano, si litiga sui criteri di stabilità di Maastricht, gli europei continuano a vedere Bruxelles come troppo lontana da loro, c’è chi si chiede se n’era valsa la pena, cominciano a diffondersi dubbi persino sull’eventualità che un’euro troppo forte porti allo «scollamento » dell’Unione. Sinora la Cina prediligeva i rapporti bilaterali con i singoli Paesi europei. Ora sembra puntare all’Europa come entità unica. Ci crede apparentemente molto più di quanto negli ultimi tempi abbia mostrato di crederci, o di desiderarlo, l’amministrazione di George W. Bush, «disamoratasi» dell’idea stessa di Europa unita che pure in passato l’America aveva caldeggiato. A Washington sono molto arrabbiati. Considerano l’insistenza cinese su un mondo multipolare come una sfida diretta al contenimento della potenza americana. Diffidano del ruolo crescente che la Cina ha assunto negli organismi internazionali, dall’Onu al Wto. Ne temono la crescente potenza economica. L’accusano di far perdere posti di lavoro in America con le loro esportazioni a basso costo, di mettere a repentaglio la ripresa ostinandosi a tenere artificiosamente sottovalutato il loro «yuan renminbi» rispetto al dollaro che altrettanto artificiosamente stanno pilotando da tempo al ribasso. Non sono così entusiasti che anche in Asia si profili una sorta di euro e di mercato comune. L’Asia certo gli fa concorrenza, e non solo a loro. Si prevede che la Cina supererà la Germania nel 2007, il Giappone nel 2015, forse persino l’America nel 2041. Quella cinese è l’unica economia che aveva continuato a tirare anche quando le cose andavano male. C’è però anche chi osserva che se gli Usa sono andati meglio è forse anche perché avevano più rapporti con la Cina di quanto ne avesse l’Europa. È più probabile che gli secchi di più l’idea che gli affari con la Cina possano farli altri più di quanto non li facciano loro. L’idea di guerre commerciali e valutarie con la Cina, che tanto sembra appassionare Giulio Tremonti, non porta da nessuna parte: tutti gli addetti ai lavori concordano che le vincerebbero anche contro gli Usa, figurarsi contro l’Europa. C’è anche una preoccupazione militare. Che la Cina si appresti a inviare un uomo nello spazio può avere valore soprattutto simbolico, di prestigio. In fin dei conti lo fanno con 40 anni di ritardo rispetto a Usa e Urss. Sono in gara con gli indiani e gli europei per andare sulla luna. Potrebbero essere i primi ad andare su Marte. Ma potrebbe essere anche una dimostrazione dell’interesse di concentrarsi nelle implicazioni militari delle tecnologie spaziali. Comincia a diffondersi tra i «falchi» americani di una possibile futura «Pearl Harbor spaziale », da qui a 20, forse 15 anni. Purché a qualcuno non venga in mente di curarla con una guerra «preventiva ». Non gli è andata per nulla a genio la bozza di accordo tra Cina ed Europa per la partecipazione congiunta al progetto Galileo (una costellazione di 30 satelliti che equivale ad una dichiarazione d’indipendenza dal monopolio del posizionamento satellitare Gps americano). Meno ancora che si siano dichiarate interessate al processo anche India ed Israele. Per l’Europa quella cinese si presenta come una «offerta che non si può rifiutare». Ma bisogna anche sapere che l’offerta ha un prezzo. Una parte è dettagliata nel documento: dalla richiesta che l’Europa non metta in discussione la sovranità cinese su Taiwan, a quella che l’ingresso degli europei dell’Est non appesantisca le tariffe, a quella che non li si critichi troppo su democrazia, diritti umani e li si «comprenda » sul Tibet. Su questo il parlamento europeo ha già risposto ribadendo le critiche a Pechino. Non è necessario facciano passi indietro. Ma nemmeno che gli si dica di no solo per accomodare apprensioni americane che con la questione della democrazia non hanno molto a che vedere.