La Cina sta abbattendo le emissioni di gas serra. Mentre la sua economia continua a crescere a ritmi molto sostenuti, le emissioni di anidride carbonica (CO2) e di metano (CH4) sono iniziate a diminuire. E non di poco. Nei cinque anni compresi tra il 1996 e il 2000 il più popolato paese del mondo a tagliato del 7,3% le emissioni totali di CO2 (addirittura del 8;8% quelle prodotte dall’uso di combustibili fossili) e del 2,2% quelle di CH4. Questi dati sono stati pubblicati di recente da David G. Street, dell’Argonne National Laboratory degli Stati Uniti e da un gruppo cino-americano di suoi collaboratori della rivista “Science” dell’Associazione americana per le scienze. E hanno suscitato un grande interesse sia tra gli esperti di economia che tra gli esperti di economia ecologica di tutto il mondo. Per due ordini di motivi, entrambi decisivi per il fragile ambiente planetario.
Il primo è che con questo taglio netto alle emissioni di gas serra, la Cina dimostra che il suo sistema produttivo sta realizzando una formidabile crescita di efficienza, battendo di gran carriera la stesse piste virtuose tracciate negli ultimi due secoli dalle grandi economie di mercato. Il secondo motivo è che, tagliando le emissioni di anidride carbonica e metano, la Cina offre un contributo notevole alla lotta contro l’inasprimento dell’effetto serra e il conseguente aumento della temperatura media del pianeta, dando insieme una lezione e una indicazione a tutte le grandi economie di mercato.
L’aumento di efficienza del sistema produttivo cinese emerge con grande chiarezza dai dati di Street e colleghi. Nei cinque anni compresi tra il 1996 e il 2000 l’economia cinese è cresciuta di circa il 45%. L’economia per crescere a bisogno di energia. E le fonti energetiche di gran lunga prevalenti in Cina, come in tutto il mondo, sono i combustibili fossili: carbone, petrolio e gas naturale. Ebbene, tra il 1996 e il 2000 la Cina ha diminuito dell’8,8% le emissioni di anidride carbonica prodotta dall’uso di combustibili fossili. Il che significa che ha prodotto più ricchezza con meno energia. L’economia cinese è diventata più efficiente. L’aumento dell’efficienza energetica del sistema produttivo cinese in questa sfiora il 60%. Un aumento che ha rari precedenti nella storia. E che indica agli economisti che l’efficienza dell’economia cinese sta seguendo l’andamento classico delle economie di mercato.
Molti, negli scorsi anni, si domandavano se le grandi economie emergenti, come quelle della Cina e dell’India, nella loro crescita avrebbero seguito l’esempio delle inefficienti economie di mercato. In ballo c’era una quantità enorme di energia. Se l’inefficienza fosse stata alta, la domanda mondiale di energia sarebbe cresciuta moltissimo. E, con essa, sarebbero aumentato il costo dell’energia. La performance cinese dimostra che almeno la Cina è incamminata sulla strada dell’efficienza e che quindi la domanda mondiale di energia crescerà molto meno di quanto ci si potesse aspettare.
Questo scenario a di per sé un grande valore anche sul piano ecologico. Lo sviluppo economico della Cina non sta avendo l’impatto temuto sugli equilibri planetari. In particolare non sta avendo l’impatto temuto sul cambiamento del clima globale. Anzi, l’impronta cinese sul clima è diminuita. Proprio mentre l’impronta dei paesi ricchi è andata aumentando. Mentre, infatti, la Cina abbatteva tra il 1996 e il 2000 dell’8,8% le emissioni di CO2 da combustibili fossili, i paesi ricchi le andavano aumentando: il Giappone del 3,0%, l’Europa occidentale del 4,5%, gli Stati Uniti del 6,3% (anche l’India le ha aumentate dell’8,8%).
Tutto questo modifica i fondamenti del dibattito sul Protocollo di Kyoto e sulle politiche di contenimento del cambiamento globale del clima: la perfomance cinese, in parte perseguita con lucidità dalle autorità politiche ed economiche, toglie alibi a tutti. Toglie alibi agli altri paesi in via di sviluppo, perché dimostra che anche nel Terzo Mondo la crescita economica può disaccoppiarsi dalla crescita dei consumi energetici. I paesi in via di sviluppo possono essere coinvolti in un programma equo di riduzione delle emissioni di gas serra.
Toglie alibi ai paesi industrializzati che hanno aderito al Protocollo di Kyoto, perché dimostra che tagliare del 5% le emissioni di gas entro il 2012 rispetto ai livelli del 1990 non è affatto un’impresa e comunque non riduce, ma anzi aumenta la competitività sui mercati internazionali.
Toglie, infine, ogni alibi agli Stati Uniti di Bush, che non hanno aderito al Protocollo di Kyoto richiamandosi a due necessità: non compromettere il proprio sviluppo e non conferire alle economie emergenti, in primo luogo alla Cina, un vantaggio competitivo. Ebbene, l’uno e l’altro motivo cadono di fronte ai dati forniti dall’americano David G. Street. Benché non vincolata da alcun trattato internazionale, l’economia cinese cresce riducendo l’emissione di gas serra. Come possono gli opulenti Stati Uniti, dove ogni cittadino immette in atmosfera una quantità di gas serra pari a quella di 50 cinesi, sottrarsi al loro dovere di dare un contributo al bene comune del pianeta almeno pari a quello che sta dando l’emergente ma ancora povera Cina?