La Cia finisce in tribunale

La storia delle persone portate dalla Cia fuori del territorio americano per poterle torturate in santa pace potrebbe finire presto in tribunale. Questa è almeno la speranza degli uomini dell’Aclu, l’associazione per la difesa dei diritti costituzionali, che hanno in animo di presentare una formale denuncia contro l’agenzia di spionaggio americana per avere violato, con quella pratica, «le leggi americane e quelle internazionali». La pratica è nota ed ha ormai anche un nome pressoché ufficiale, extraordinary rendition. Consiste nel trasferire i sospetti terroristi (senza che nessuno sappia come si sia arrivati a considerarli tali) in prigioni offerte graziosamente e segretamente da paesi amici, nelle quali quei prigionieri possono essere torturati senza che nessuno abbia nulla da ridire. La lista dei paesi finora emersa comprende i fidi Egitto e Arabia saudita, il dipendente Afghanistan, l’entusiasta Romania ex ceauceschiana, ma anche, stranamente, la ufficialmente «nemica» Siria, che a Washington viene spesso arruolata all’«asse del male». Siccome però i viaggi per questi trasferimenti sono lunghi e gli aerei che trasportano quei disgraziati devono fare degli scali, ecco che l’operazione si globalizza con l’uso di aeroporti europei. Di qui la decisione dell’Aclu di basarsi nella sua denuncia sulle leggi sia americane che internazionali. Il caso specifico è quello di un uomo – di cui per ora non si conosce il nome – che è stato portato in una prigione in Afghanistan, picchiato, torturato, detenuto per lungo tempo e poi rilasciato senza uno straccio di incriminazione e senza neanche le scuse. Martedì quell’uomo apparirà a Washington in un conferenza stampa, dirà il suo nome e racconterà la sua storia, mentre gli avvocati dell’Aclu nomineranno i dirigenti della Cia contro i quali avranno poco prima depositato la loro denuncia ed anche le compagnie aeree, denunciate anche loro, che hanno provveduto al trasporto dei prigionieri nei luoghi di tortura predisposti.

Ma martedì in Europa ci sarà Condoleezza Rice, che secondo alcune indiscrezioni trapelate ieri intende dare agli amici europei la «risposta» alle «preoccupazioni» da loro già espresse formalmente su quelle prigioni segrete e sull’uso dei loro scali per portarvi la gente da torturare. In pratica, dopo essere rimasta a lungo in un imbarazzato silenzio su questa questione, Rice sembra avere deciso di prendere il toro per le corna e discuterne direttamente. E il modo in cui ne discuterà – sempre stando alle indiscrezioni trapelate – sarà del tipo: non fate tanto gli schifiltosi, sapete benissimo che questa operazione fa comodo anche a voi. «Sembra molto chiaro che gli americani vogliono che la si smetta di spingere su questa storia», ha detto un anonimo diplomatico europeo all’agenzia Reuters, mentre uno con nome e cognome, il ministro degli Esteri irlandese Dermot Ahern in visita qui, ha riferito che dagli alleati europei Rice si aspetta «fiducia», nel senso che loro dovrebbero sapere benissimo che «l’America non consente gli abusi». La chiosa del ministro degli esteri irlandese a questo atteggiamento di Rice è stato che evidentemente lei non ha nessuno intenzione di dare risposte dettagliate sugli scali. E infatti, hanno detto i portavoce del dipartimento di stato dopo l’incontro fra Rice e Mister Ahern, lei non ha specificamente assicurato al ministro che nessun aeroporto irlandese sia mai stato usato come scalo per i viaggi della tortura perché «tanto lui aveva già ascoltato la smentita de nostro ambasciatore».

La contemporaneità fra la denuncia dell’Aclu contro la Cia e la sua presenza in Europa dovrebbe in qualche modo danneggiare Rice nella sua ricerca di un «signorsì» europeo, ma il dipartimento di stato ieri sembrava piuttosto tranquillo. In fondo, nonostante le sue osservazioni, il ministro irlandese Ahern alla fine ha detto di «accettare la parola americana», mentre da Berlino il nuovo governo fa sapere di essere disposto ad aspettare «con pazienza» le risposte americane. Rice approfitterà di questa buona disposizione europea per chiedere ai governi amici anche di dare una mano, almeno dal punto di vista dell’«immagine», ricordando ai rispettivi parlamenti e popoli che dopotutto «quella che si sta combattendo è una lotta contro il terrorismo», ha detto il suo portavoce Sean McCormack.