La casa comune ha mezzo secolo

A qualcuno sarà capitato di entrare per un dibattito, per una festa, per una partita a tresette, in una vecchia Casa del popolo o in una moderna sede Arci, magari in una città o un paese della Toscana. Avrete visto come in una stessa palazzina si trovino la suddetta sede, ma anche la sezione del «partito», l’altroieri il Pci, ieri il Pds, oggi i Ds. Ora succede che in quei luoghi storici i compagni dell’Arci si interroghino sul futuro prossimo, quando il partito ospitante si chiamerà Democratico, senza riferimenti nel nome alla sinistra. Dice un vecchio compagno, una memoria vivente dell’ultimo mezzo secolo: «Finirà che i nostri ragazzi si troveranno insieme a quelli dell’oratorio. Niente di male, per carità, resta il fatto però che come Arci siamo nati proprio per offrire un’alternativa alla parrocchia come luogo di aggregazione e socialità».
Se la sinistra è al governo
L’Arci festeggia il suo primo mezzo secolo di vita nel «gorgo» – per usare un termine caro a Pietro Ingrao – di un rapido quanto confuso processo di ristrutturazione della sinistra. A cinquant’anni dalla sua nascita, la più grande forza dell’associazionismo italiano non è più, nelle forme comunque originali in cui lo è stata, una cinghia di trasmissione dei partiti di sinistra, il Pci in primis. Oggi l’Arci rivendica a buon diritto la sua autonomia dalla sfera del politico-partitico, anzi incentra il suo lavoro nel tentativo di raccordare quel che la Politica, la sinistra al governo, non vede o non vuol vedere: la società civile, i movimenti, i cittadini. Allora, se chiedi al presidente nazionale Paolo Beni come si collochi la sua organizzazione rispetto al nascente Partito democratico e a chi nei Ds rifiuta tale approdo, oppure rispetto a quel che si muove a sinistra tra Bertinotti, Giordano, Mussi, Diliberto, Pecoraro Scanio, ti risponde: «Vedo una pluralità a sinistra, non necessariamente un conflitto. Sono possibili sintesi, o percorsi comuni. Quel che ci preoccupa, in questa fase, è la resistenza dei poteri forti all’azione riformatrice del governo Prodi. Una ragione di più perché i partiti di sinistra rafforzino il loro rapporto con il mondo del lavoro e la società civile, che invece rischiano di perdere, pensando erroneamente che tale rapporto non serva più nel momento in cui si va al governo. Suggerisco di avere meno paura verso i cittadini e i movimenti» che non sono un problema ma una risorsa, soprattutto se si vuole ostacolare l’azione dei poteri forti.
Cinquant’anni, non li dimostra se si pensa alla sua vitalità, anche se i tempi sono quelli che sono e le grandi manifestazioni di massa – contro la guerra, per i diritti, per costruire le fondamenta di quell’altro mondo possibile – sono alle spalle. E chissà, forse anche di fronte a noi. Ma non si fa politica nel sociale soltanto con milioni di persone alla volta che scendono in piazza. Si fa nel «locale», si fa nelle città, nelle valli, nei quartieri, nei caseggiati persino. Creando spazi e opportunità di incontro, aiutando la crescita nel territorio una pratica di democrazia diretta: la politica partecipata, la cittadinanza attiva che difende e costruisce servizi, diritti, welfare. Ecco l’Arci nel 2007.
I suoi anni li mostra tutti, invece, per la memoria che incorpora, la memoria di una storia d’Italia che inizia ben prima di quel maggio ’57 quando a Firenze fu messa la prima pietra dell’Associazione ricreativa e culturale italiana grazie anche alla passione del partigiano Arrigo Diodati, oggi presidente onorario: inizia nell’Ottecento con le Società di mutuo soccorso, si rinnova nel Novecento con le Case del popolo. Una storia, quella dell’Italia sociale rappresentata dall’Arci, ma anche e soprattutto una casa comune delle sinistre, non un partito, semmai uno spartito. Un collante, come è stata negli anni bui di Berlusconi, quando è riuscita a tenere insieme culture e pratiche anche molto diverse, in piazza come nelle sedi della politica e dei movimenti. Contenuti e pratica possono procedere insieme, se non ossessionati dagli incubi dell’appartenenza, o dalla pretesa di egemonia. Questo spiega la stagione iniziata a Seattle, esplosa a Genova e proseguita nelle grandi mobilitazioni pacifiste, per i diritti dei lavoratori, dei migranti, della cultura. Ora che il quadro è cambiato, Berlusconi non è al governo (ma ha lasciato segni profondi nella società e nella politica), c’è ancor più bisogno del collante Arci. Se non altro per arginare quella che sembra essere l’ultima eredità del Novecento: lo stalinismo, sia nella versione politica – l’espulsione del dissenso dal partito, magari sull’Afghanistan – che nella versione movimentista – l’espulsione dai cortei del nemico principale, il più vicino a sinistra.
Un filo rosso
Sull’Afghanistan l’Arci cerca un filo rosso che possa ricongiungere posizioni diverse a sinistra: «Non dev’essere stravolta la nostra missione che non è aggressiva ma civile, finalizzata alla protezione della popolazione e tale deve restare. La parola – dice Paolo Beni – deve tornare in fretta alla politica e lo strumento è la conferenza di pace. Non ci risulta che i vertici della Difesa possano stravolgere questo mandato». Ma il consiglio supremo di Difesa chiede elecotteri e veicoli corazzati, richiesta motivata con l’esigenza di garantire la sicurezza ai nostri soldati… «Non entro nel merito delle scelte tecniche. Senza dubbio la dotazione dei nostri militari dev’essere adeguata al mandato e a garantire la sicurezza. Ma dietro le scelte tecniche non può celarsi una discussione politica. Se il mandato dovesse cambiare, noi ci opporremmo».
La festa di Firenze
Un milione, duecentomila soci, una vera potenza nel mondo dell’associazionismo. Ieri a Roma, il gruppo dirigente dell’Arci ha presentato le iniziative per festeggiare l’anniversario. Appuntamenti ludici, sociali, culturali, politici, a centinaia lungo tutta la penisola e nelle isole. Il momento clou del cinquantenario si svolgerà, neanche a dirlo, nella capitale dell’Arci: a Firenze,dal 24 al 27 maggio, tra convegni e incontri, atti solenni e festa di popolo con Nomadi, Silvestri e Subsonica tra gli altri, estesa dalla stazione Leopolda a tutta la città, «un’occasione per svegliarla questa città di Firenze, con lo sguardo troppo rivolto al passato», dice Francesca, presidente fiorentina dell’organizzazione). E ancora, una mostra che in tempi di ricordi pratoliniani non poteva che essere a San Frediano.
Se vivessimo nel Novecento, l’espressione usata per definire l’identità dell’Arci sarebbe «cambiamento nella continuità». Dai biliardini e dalle partite a scopone alla politicità di oggi, l’Arci è cambiata, dice Beni, ma non è diventata un’altra cosa: «Siamo nati dalla sinistra come creatura autonoma e plurale per rivendicare il diritto per tutti alla cultura, per il riscatto delle classi subalterne. Ieri come oggi abbiamo sempre messo al centro la persona. Rivendichiamo con orgoglio le origini così come la capacità continua di cambiare, perché siamo immersi nelle trasformazioni sociali».
Tanti auguri all’Arci, e a tutti noi.