La campagna di Fini

Chi di campagna elettorale ferisce…Verrebbe voglia di dire subito. Perché? Perché il governo italiano nove giorni fa, per bocca del ministro degli esteri Fini, rispondendo in parlamento sui fatti di Bengasi provocati dalla «maglietta nera» del ministro leghista Calderoli, aveva ribadito che rispetto alla Libia da quel momento in poi il governo avrebbe dato «priorità assoluta alla necessità di chiudere definitivamente il capitolo storico del passato coloniale». Ora Gheddafi riapre pesantemente quel capitolo mai chiuso e il suo intervento precipita dentro la campagna elettorale italiana. Insomma, non bastano le promesse, tanto più in campagna elettorale. Gheddafi manda a dire, non che la provocazione del ministro italiano non ha avuto peso, ma che senza gli undici «martiri» di Bengasi avrebbe avuto conseguenze ben peggiori, perché è stata benzina su un fuoco già acceso: il rancore profondo della popolazione libica, e della Cirenaica in particolare, contro gli italiani e le loro mai risarcite responsabilità nei crimini della guerra coloniale.

Si tratta di un problema che è sul tavolo fra Tripoli e Roma da almeno 45 anni. Mostra a dir poco ignoranza chi, come Magdi Allam, dichiara che si tratta di dichiarazione del leader libico «ad uso interno» perché ormai «è un burattino nelle mani dei fondamentalisti». Al contrario è una rivendicazione che fa parte della storia recente della Libia e per quel che riguarda i fondamentalisti libici, Gheddafi ha sicuramente problemi, ma ha liberato 80 membri dei Fratelli musulmani anche perché questi sono ormai pienamente rappresentati nelle istituzioni di altri paesi mediorientali, come l’Egitto. Intanto continua a tenere in prigione più di 400 integralisti che nel 1990 furono protagonisti di una rivolta proprio a Bengasi.

La storia delle rivendicazioni di Tripoli è la storia delle promesse italiane non mantenute. Già nel 1956 l’Italia si accordò con re Idris per chiudere la questione coloniale, ma fu una conclusione molto gretta e meschina, la somma pattuita era modestissima e oltretutto era compresa la costruzione di un ospedale, in realtà mai stato costruito. Poi nel 1969 arriva Gheddafi a cambiare radicalmente l’atmosfera e il primo provvedimento che attua è la richiesta agli Stati uniti e alla Gran Bretagna di abbandonare le basi aeree che avevano in territorio libico, cosa che avvenne nel giro di pochi mesi (tra l’altro la base area di Wilus Field era la più importante base aerea di tutto il Mediterraneo). Logicamente sarebbe poi toccato all’Italia, presente però ancora con una colonia di 20mila persone, cacciate via in maniera piuttosto brutale. Ma è bene ricordare che la responsabilità dell’espulsione improvvisa e senza risarcimenti non era solo di Gheddafi, perché in realtà c’era un accordo pronto con l’allora ministro degli esteri italiano Moro, che stava per arrivare a Tripoli per incontrare su questo proprio Gheddafi. Il viaggio saltò all’ultimo minuto per l’ennesima crisi di governo. Siamo all’inizio degli anni Settanta e Moro preferì i palazzi romani sottovalutando il colonnello africano.

Da allora Gheddafi ha continuato sistematicamente a rivolgere all’Italia due richieste fondamentali. Primo, il risarcimento dell’occupazione militare italiana e dei danni di guerra. Secondo, l’operazione di bonifica di tutti i campi minati nella Cirenaica. Nessuna delle due è stata benché minimamente esaudita. Ancora nel 1984 Andreotti andava in Libia a promettere un ospedale. E poi siamo arrivati ai viaggi di Berlusconi pronto a chiudere la partita offrendo anche lui un ospedale e 63milioni di euro. Ma, con sorpresa di Berlusconi, Gheddafi ha risposto di no, chiedendo invece la famosa litoranea che va dal confine della Tunisia al confine dell’Egitto. Anche di questo da allora non se n’è più parlato. Comunque, in cambio, abbiamo chiesto alla Libia di fare il lavoro sporco di allestire campi di raccolta – negli stessi luoghi dove il nostro esercito coloniale prima e fascista poi aveva allestito campi di concentramento – per fermare la disperazione degli immigrati africani. Una collaborazione che il governo italiano definisce «fruttuosa», ma che in realtà non ha modificato il dramma dell’immigrazione di fronte alla miseria dell’Africa.

E siamo a ieri con Fini che rassicura che le parole di Gheddafi sono solo «un comizio». La verità è che quella del governo italiano che parla per bocca di Fini è sempre una preoccupazione elettorale che punta a scaricare su Tripoli le proprie incapacità. Forse è meglio che Berlusconi e Fini riflettano sulle parole di Gheddafi che dice: «Vogliamo impedire un ripetersi del colonialismo in futuro, perché nessuno sa come l’Italia sarà nei prossimi 50, 100 anni…». Più esplicito di così. Vuol dire nei prossimi anni. Non deve essergli molto gradita la presenza nelle liste elettorali del centrodestra al potere in Italia di xenofobi, postfascisti e tanti neofascisti che fanno vanto del passato neocoloniale d’Africa e si guardano bene dal pensare a una riparazione che cominci almeno, come fece il presidente Scalfaro per l’Etiopia, a riconoscere che «furono anni di sangue, noi chiediamo scusa».