La “ campagna del pane” e l’iniziativa sociale di Rifondazione *

La “campagna del pane” ha caratterizzato, più di altre, l’iniziativa sociale del Prc in questa fase. Dai primi responsi giunti dai territori tale iniziativa ha avuto un buon successo e ha permesso al Partito di iniziare , faticosamente, a riannodare alcuni di quei legami sociali brutalmente recisi dagli errori politicisti ed istituzionalisti commessi precedentemente da Rifondazione Comunista e sfociati nella Caporetto del 13 e 14 aprile 2008.

E’ importante analizzare la campagna del pane poiché essa ha messo in evidenza alcune, non trascurabili, contraddizioni: da una parte vi è stata una buona – e non scontata – risposta militante, nei Circoli e nelle Federazioni. Il Partito è sceso in piazza e si è impegnato; si è convinto della bontà dell’iniziativa. D’altra parte vi è stata una risposta negativa ( con punte di sprezzo) da parte della minoranza. Oltre ciò, si percepisce una “terra di mezzo” – non si sa quanto vasta – segnata da una sorta di scetticismo o silenziosa attesa.

Chi scrive, per evitare equivoci, si dichiara d’accordo con l’iniziativa e anche con le diverse forme di lavoro sociale che essa evoca.
Ma le contraddizioni interne che il lancio della campagna ha provocato meritano un supplemento di indagine e di riflessione.
Partiamo dall’essenza delle cose: il segretario nazionale, Paolo Ferrero, e il nuovo gruppo dirigente tentano – attraverso la campagna del pane – di introdurre un’innovazione politica, culturale e organizzativa nel Partito ( nel senso che essa aggiunge un pezzo di lavoro inedito all’impegno militante).

Ferrero chiama questo nuovo pezzo di lavoro militante “mutualismo”.
D’accordo: tuttavia, proprio alla luce delle contrarietà e dei silenzi provocati nel Partito credo che di questa innovazione dobbiamo parlare.
Prima questione: non dobbiamo ripetere gli errori commessi – a mio avviso – da Bertinotti. L’ex segretario lanciava “innovazioni” spesso prive del minimo sostegno politico e teorico necessario, sino al punto che esse si trasformavano – per la loro fragilità culturale – in atti liquidatori , e non rifondativi, della cultura e della prassi comuniste.
Il mutualismo che ci propone Ferrero, dunque, che cosa deve essere ? Che cosa non deve essere? La imposterei così, la questione, senza pregiudizi o reticenze nella discussione, ma con spirito aperto e costruttivo.

Quali sono le origini del mutualismo?

Sembra che tra i primi ad usare il termine “mutualismo”(mutualisme ) sia stato, nel 1822, Charles Fourier ; è sicuro che fu una organizzazione di lavoratori di Lione – verso il 1830 – ad autodefinirsi mutualista ed è nella storia del pensiero filosofico ed economico il fatto che la categoria di mutualismo sia stato il cuore dell’analisi complessiva di Pierre – Joseph Proudhon.

Fourier, Proudhon, Josiah Warren, in buona parte Saint – Simon, del tutto Robert Owen : è lungo quest’asse di socialisti–utopisti, di umanisti non materialisti e pre-marxisti che prende corpo la concezione del mutualismo.

Essa è molto chiara in Proudhon: il mutualismo è il progetto di collaborazione, in senso solidale, tra produttori associati, non è certo il superamento dei rapporti capitalistici di produzione. Il problema centrale del capitalismo non è – per Warren e Proudhon – lo sfruttamento oggettivo sul lavoro tramite l’estrazione di plus valore, ma è “la violazione del principio del costo”, violazione attraverso la quale il capitale accresce arbitrariamente tutti i prezzi delle merci. Proudhon ( significativamente rilanciato – in una fase anticomunista acuta del centro sinistra storico italiano – da Bettino Craxi ) è famoso per aver affermato che “la proprietà è un furto”, anche se meno conosciuta, ma intimamente coerente al suo sistema di pensiero, è la sua affermazione secondo la quale “ la proprietà è libertà” e che “ la proprietà degli strumenti di lavoro è essenziale per la libertà”.

Peraltro, saranno proprio Marx ed Engels ( già ne “ Il Manifesto del Partito Comunista”) a fare i conti con il socialismo utopistico e con la concezione del mutualismo.

Si legge ne “ Il Manifesto” : “ I sistemi di Saint- Simon, di Fourier, di Owen, emergono nella prima e non sviluppata fase della lotta tra proletariato e borghesia…I fondatori di quei sistemi colgono la contrapposizione fra le classi…ma non colgono affatto l’autonomo ruolo storico del proletariato… Al posto dell’attività sociale deve subentrare la loro propria inventiva personale, al posto delle condizioni storiche dell’emancipazione del proletariato devono subentrare condizioni immaginarie, al posto della graduale organizzazione del proletariato in classe deve subentrare una organizzazione della società da loro stessi escogitata”.

E sarà ancora Marx, nella “Miseria della Filosofia”, a rispondere al Proudhon che asseriva che “è il tasso del salario a determinare il prezzo delle merci”. Scrive Marx che vi è il diritto alla sciocchezza e Proudhon ignora che è stato lo stesso Ricardo a confutare una volta per tutte questo errore tradizionale.
I socialisti utopisti avevano escogitato un loro mutualismo e Marx l’aveva ridicolizzato.

Dunque, è chiaro che la proposta del mutualismo non può di certo riferirsi alla riproposizione delle concezioni di Fourier, Proudhon e Owen. Ma questo, mi pare d’aver capito, è lo stesso Ferrero ad asserirlo.
Che cosa può essere, dunque, il mutualismo proposto dal segretario del Prc ?

Non deve essere e non è una riassunzione – nè per i tempi brevi né per i tempi lunghi – del senso ultimo della Società dell’Armonia senza più conflitti di Fourier o di un rilancio di quelle forme di cooperazione e associazionismo che si propagarono nella metà dell’ottocento e poi degenerarono in organizzazioni neo capitaliste volte, come le altre, al massimo profitto.

Per comprendere il mutualismo possibile potrebbero esserci utili le riflessioni di Lorenzo Guadagnucci ( “ Il nuovo mutualismo” , Feltrinelli, 2007).

Guadagnucci ci ricorda, in quel suo lavoro, come le forme di autorganizzazione sociale crebbero e si diffusero, nella prima metà del XIX secolo, come tentativo di ricostruzione di quei legami sociali che il capitalismo degli “spiriti animali” del tempo aveva violentemente lacerato. E come oggi, di fronte al nuovo e lungo ciclo iperliberista segnato da un vasto disagio sociale e dalla distruzione generale del welfare, nuove forme mutualistiche, di spontaneo mutuo soccorso , si stiano diffondendo ed auto organizzando ( molte, ed in espansione carsica, sono ad esempio, le nuove forme del credito democratico e svincolato dall’usura delle banche).

Ed è importante l’analisi di Guadagnucci poiché, da una parte, ci invita – anche noi comunisti – a non avere un rapporto aristocratico con tali forme di autorganizzazione sociale e, d’altra parte, a non dimenticare la degenerazione affaristica di quelle forme sociali spontanee che alla fine dell’ottocento si istituzionalizzarono entrando infine nel mercato come soggettività capitalistiche a tutto tondo, senza più nessun retaggio etico o solidale.

Questioni che riprende anche Giulio Marcon nel suo libro “ Le utopie del ben fare” , quando ricorda il pericolo di degenerazione del no profit e del terzo settore.

Che cosa deve dunque essere la proposta di Ferrero del mutualismo?
Prendendo nettamente le distanze da ogni forma mutualistica sbagliata e ambigua ( da Proudhon all’odierno terzo settore) il nostro mutualismo dovrebbe essere essenzialmente un nuovo terreno di lavoro, un nuovo obiettivo della militanza, una nuova forma di penetrazione nel corpo sociale e di organizzazione del consenso. Oltreché l’anticipazione di una nuova etica: quella comunista e solidale.

Dobbiamo, cioè, con la massima concretezza possibile, stare a fianco della grande sofferenza sociale, offrire alle persone in carne ed ossa colpite quotidianamente dal capitale il nostro aiuto solidale; nelle periferie delle metropoli, nei paesi, nei quartieri, nei condomini, a fianco dei lavoratori divenuti esuberi, delle famiglie povere, degli immigrati, di quegli anziani e di quei malati ( penso all’Alzhaimer) con pensioni che non permettono né istituti né badanti a tempo pieno. E’ troppo cristiano, tutto ciò, per noi comunisti? E’ lavoro da crocerossine? No: ricordo che gli Oratori delle parrocchie, con la loro capillare rete di relazioni sociali, sono tra le più formidabili macchine di organizzazione del consenso conosciute e noi, senza “media” e senza fondi, abbiamo un’unica possibilità : il radicamento in ogni piega sociale ( certo: innanzitutto nei luoghi della produzione e del conflitto vivo tra capitale e lavoro, presenza organizzata senza la quale ogni altra forma di militanza, compreso il mutualismo, perde senso ).

Ma il mutualismo può essere un tassello importante – nella sua forma sociale di Soccorso Rosso – del nostro radicamento.
E mi affido alle memorie di Ho Chi Min: i comunisti vietnamiti – durante la lotta di Liberazione – facevano le iniezioni, gratuitamente, ai contadini poveri e malati. Ho Chi Min era nascosto tra i contadini e lavorava con essi in incognito. Un giorno un contadino gli disse : “ Ma chi sono questi comunisti?”. E Ho Chi Min gli rispose : “Non lo so. Ma se vengono qui a farci le iniezioni e ce le fanno gratuitamente saranno sicuramente brave persone”.

Il mutualismo così concepito (solidarietà concreta, di classe) può attenuare il nostro conflitto con il capitale?
Mi pare una sciocchezza solo il pensarlo. Molte altre cose ci hanno portato lontani dalla lotta: il tentativo di trasformare il nostro Partito – comunista – in qualcos’altro da sé e la crescita di un grande amore per le poltrone.

Se il mutualismo – assieme al nostro imprescindibile protagonismo nei luoghi di lavoro – ci aiuterà a rafforzare i nostri deboli rapporti di massa ci aiuterà anche ad innalzare la nostra capacità di organizzare il conflitto sociale. In senso anticapitalista.