La caduta del manager Alessandro Profumo. Un giudizio oltre l’orizzonte del Capitale.

Primeggiare tra nani per aver perseguito con maggior determinazione e successo un modello di banca (e di business) che la crisi ha confermato essere non solo eticamente inaccettabile ma di una fragilità e pericolosità sociale assoluta, non rappresenta per noi un particolare motivo di merito.

Pertanto, lasciamo volentieri ad altri l’onere di spiegare perché Alessandro Profumo debba essere considerato incondizionatamente un “grande banchiere” e non, piuttosto, un manager di indubbio successo la cui vicenda personale alla guida di Unicredit assume un significato emblematico perché ha incarnato e rappresentato nel modo più limpido, e con piena consapevolezza soggettiva, le modalità, gli obiettivi e gli interessi di classe alla base del radicale processo di privatizzazione e trasformazione del sistema bancario italiano avviato negli anni novanta.

Ed è rispetto a tali modalità, obiettivi e interessi (più che rispetto a vizi e virtù personali) che deve articolarsi un giudizio serio sull’operato del banchiere e sul significato della sua attuale caduta.
Occorre cioè saper tenere aperto un confronto oltre (e non dentro) l’orizzonte ideologico liberale e capitalista che accomuna i sostenitori e la maggior parte dei critici di giornata di Profumo i quali, concentrando la discussione su questo o quel “dettaglio”, cercano innanzi tutto di garantirsi che, sceso uno dei principali manovratori, la giostra continui comunque a girare senza rallentamenti e nello stesso senso.
Semmai ciò che colpisce (ancora una volta) è la capacità di attrazione che il “pensiero unico bancario” esercita al di là del campo degli interessi che rappresenta. Sarà ingenuità, sarà debolezza di ragionamento ma il “Profumo banchiere di sinistra” alla Parlato, il “Profumo vicino all’economia reale” del primo commento su Liberazione, il “Profumo meglio dei partiti” di ispirazione grillina e di altri blog antisistema sono francamente inaccettabili.
Non stupisce neanche più, invece, l’acquiescenza dei vertici dei sindacati concertativi tra cui brilla la dichiarazione del Segretario Generale della Fisac-Cgil che esprime ”Stima e solidarietà verso l’uomo ma anche verso il manager che e’ stato capace di costruire e dare una prospettiva al più grande gruppo del sistema bancario italiano e, contemporaneamente, di aver rafforzato un sistema di governance improntato a buone relazioni industriali”.

Tornando (per cortesia) ai fondamentali, il modello di grande gruppo bancario transnazionale verso il quale Profumo ha guidato Unicredit (confrontandosi ovviamente con la specificità del contesto italiano) è quello che il capitalismo, in particolare di matrice anglosassone, ha cercato di imporre quale unico e naturale nella fase di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia.
E’ il modello di banca che rinnega la funzione sociale e pubblica della raccolta del risparmio e dell’attività creditizia, che deve essere gestita come una fabbrica di caramelle o di auto, che ritiene atipica e da marginalizzare la presenza tra gli azionisti di riferimento di qualsivoglia soggetto che non abbia come unica funzione obiettivo la massimizzazione del profitto a breve termine.
E’ il modello di banca che viene affidata a cordate piramidali di manager, strapagati, che il dogma vuole indipendenti dalla Politica e subordinati solo al Mercato ed il cui mantra è la “creazione di valore per l’azionista”.
E’ il modello di banca che, per rispettare tale precetto, alimenta processi di concentrazione e ristrutturazione senza fine sotto la guida delle onnipotenti società di consulenza, aggredisce sempre nuovi mercati dove esporta “democrazia economica” in cambio di profitti predatori, riduce ovunque i livelli occupazionali ed i diritti salariali e normativi dei lavoratori, alimenta i ricavi commercializzando prodotti inadeguati e sviluppando politiche commerciali sempre più aggressive.
E’ il modello di banca, infine, che la crisi sistemica esplosa nel 2007 pone sotto i riflettori evidenziandone la fragilità finanziaria e la falsità dei riferimenti ideologici. Il Mercato si scopre del tutto incapace di autoregolamentazione; esplodono letteralmente i conti non solo di operatori specializzati e prestigiose banche d’investimento ma anche di tante banche “universali” costrette al fallimento o salvate dal denaro pubblico quando non addirittura nazionalizzate. E questo avviene, in primo luogo, proprio nel cuore del sistema (USA, Gran Bretagna, Nord Europa) dove la tanta decantata “autonomia dei manager” ha prodotto bolle di ogni tipo e riempito la pancia delle banche ed i portafogli dei clienti di titoli tossici e schifezze varie.

Non è un caso, quindi, che nei giorni in cui la crisi finanziaria mordeva più forte in giro per il mondo e il sistema bancario nostrano reggeva meglio (a causa della sua “arretratezza”…) il gruppo italiano in maggiore difficoltà fosse proprio l’Unicredit di Profumo. Ci furono giorni molto difficili con perdite borsistiche che azzerarono la crescita di anni: la parabola discendente del grande manager comincia proprio da qui.
Si disse allora che i guai di Unicredit dipendevano, per l’appunto, dal fatto che si trattava del Gruppo italiano più grande, internazionalizzato, moderno. Tutto vero, ma alla base del problema c’erano soprattutto le scelte specifiche fatte per raggiungere tale obiettivo.

Profumo costruisce Unicredito Italiano ed il proprio mito nella seconda metà degli anni novanta, nel corso della prima grande fase di concentrazione del sistema bancario italiano conseguente al drastico processo di privatizzazione avviato a inizio decennio. Lo scenario è particolarmente favorevole ai capitani di ventura. Si tratta di una sorta di tumultuosa fase di “accumulazione originaria” decisa e sostenuta dalla Politica, attraverso leggi, orientamenti, fiscalità agevolata e contributi di denaro pubblico di ogni genere.
I problemi nascono dopo, quando lo Stato levatrice si è ormai ritratto ed i campioni nazionali del giovane sistema bancario privatizzato si scoprono comunque troppo numerosi e troppo piccoli per competere nel panorama internazionale. Profumo tenta, impaziente, qualche altra soluzione domestica che però non si concretizza e, allora, il grande salto la fa acquisendo, nel 2005, il terzo gruppo bancario tedesco (Hvb – Hypovereinsbank). Si trattò effettivamente della prima grande acquisizione cross-border nell’area Euro da parte di una banca italiana ma Hvb non godeva certo di buona salute e portò in dote non solo sportelli in Baviera (e indirettamente in Austria) ma anche debiti, prestiti inesigibili, mutui immobiliari ad alto rischio e una forte presenza nei mercati dell’est europeo in parte sovrapposta a quella già detenuta da Unicredit. Soprattutto la situazione polacca fu molto complessa da risolvere con contrasti politici con il Governo di Varsavia e rilevanti ricadute sociali ed occupazionali.
I conti di Unicredit sostanzialmente si impiombarono qui e la situazione non migliorò di certo con l’acquisizione, solo due anni dopo, del Gruppo Capitalia, un altro boccone assai difficile da digerire e un autentico paradosso per il manager “lontano dalla politica” visto che il gruppo capitolino aveva ereditato (in primo luogo da Banca di Roma e Banco di Sicilia) il ruolo di istituto creditizio più vicino ai palazzi ed agli intrighi di potere. Un’operazione che molti commentatori di allora (tra cui noi) ritenemmo sostanzialmente una ripicca stizzita alla fusione tra Intesa e Sanpaolo che aveva sottratto ad Unicredit la leadership nazionale.
Del resto, la contraddizione tra la tanto ricercata qualità della gestione e la frenetica corsa al gigantismo si manifesta, in quegli anni, anche con una crescita nei mercati emergenti sempre a più alto rischio ed incerta redditività come dimostrano gli esiti dell’ultima grande campagna di Alessandro, quella in Asia centrale (con acquisizioni in Kazakistan, Tagikistan e Kirghizistan).
La crisi, quindi, coglie Unicredit fortemente esposta e del tutto impreparata; il rifiuto di Profumo di ricorrere all’aiuto statale (i Tremonti bonds) costa agli azionisti 7 miliardi di euro in due aumenti di capitale e rende comunque necessario il ricorso ad ulteriori iniezioni di liquidità garantite dai nuovi ingombranti soci libici. Il resto è cronaca: i contrasti con le Fondazioni, gli appetiti della Lega, la vendetta di Geronzi, Gheddafi primo azionista, l’arroganza caratteriale del manager, persino i finanziamenti alla Roma Calcio…

Tornando invece al giudizio sull’intera gestione Profumo e volgendo lo sguardo non più ai processi di crescita esterna ma allo sviluppo dei modelli organizzativi interni, a noi non pare che l’AD di Unicredit si sia mai troppo discostato dal canovaccio che ha caratterizzato, negli ultimi quindici anni, le strategie di tutti i principali manager bancari italiani.

Un’uniformità che ovviamente dipende dalle comuni esperienze accademiche, formative e professionali, in primo luogo nel mondo della consulenza di matrice anglosassone, a partire da McKinsey dove Profumo, guarda un po’, è stato, per due anni, responsabile proprio del settore “Progetti strategici e organizzativi per aziende finanziarie”). Quella McKinsey che, da quasi vent’anni, rappresenta la più visibile mano del mercato finanziario italiano, sfornando a ripetizione banchieri talentuosi a cui vendere poi sempre le stesse remuneratissime ricette che necessitano poi di continui correttivi altrettanto ben pagati.
Alla base di tutto, quella che abbiamo già definito in altre occasioni, come la strategia della LegoBanca, nella quale vorticosamente ed a cicli ricorrenti, si accorpano o si esternalizzano attività, si cedono o si acquistano sportelli, si accentrano e decentrano procedure e facoltà… purché alla fine avanzi sempre un pezzo da vendere per pagarsi il gelato (leggasi stock options, valore per gli azionisti, parcelle di advisors di ogni tipo). E quando, a furia di tagliare pezzi, la casa non sta più in piedi si cambia gioco.

Così, anche Unicredit in questi anni non è mai stata ferma, conoscendo (anche limitandoci ai soli confini domestici) un susseguirsi contraddittorio di modelli più o meno federali o più o meno accentrati, la soppressione (definitiva) dei marchi locali o il mantenimento (provvisorio) dei marchi locali, la riorganizzazione per banche di segmento (S3) ed il proliferare di società prodotto o, da ultimo, il progetto di riaccorpamento generale nella Banca Unica.
E tutto ciò con l’inevitabile corollario di societarizzazione delle attività amministrative e informatiche, esternalizzazione di comparti non core (banca depositaria in primis), delocalizzazioni all’estero. Recentemente, in lista di attesa è entrata la cessione di Pioneer (risparmio gestito) il cui acquisto era stato tanto enfatizzato meno di dieci anni fa.

Tutte queste operazioni di ingegneria finanziaria, talvolta di segno contrapposto nel giro di poco tempo, hanno lo scopo, come detto, di razionalizzare l’organizzazione aziendale individuando nel contempo asset da valorizzare e cedere sul mercato al miglior acquirente. E’ indubbio tuttavia che quasi sempre tra le finalità principali vi sia quella di ridurre il costo del lavoro, diminuendo i livelli occupazionali e/o puntando all’applicazione di normative contrattuali (in Italia o all’estero) meno costose e tutelanti.
E’ anche per questo che, se si può convenire che Alessandro Profumo non sia stato il peggior tagliatore di teste e di salari in circolazione, è davvero difficile sostenere che i lavoratori dovranno rimpiangerlo e debbano oggi rivendicare la continuità nella gestione della Banca.
Solo i vertici burocratici dei sindacati concertativi, più interessati ai formalismi procedurali che alla sostanza, possono affermare questo, dimenticando che sono decine di migliaia le lavoratrici ed i lavoratori che durante l’era Profumo sono stati espulsi dal processo produttivo o hanno subito le conseguenze professionali degli ininterrotti processi di ristrutturazione.
Concertando in Italia ed usando il pugno di ferro nell’Est Europeo, Unicredit ha ottenuto ovunque una diminuzione dei livelli occupazionali (in Polonia e nel Centro Sud del nostro paese, innanzi tutto), l’estensione dell’area della precarietà, la riduzione di diritti e costo del lavoro.
Inoltre Profumo non ha mai tenuto fede alle promesse di affrontare (né tanto meno di risolvere) alcune gravi situazioni ereditate dalle banche acquisite: citiamo solo uno dei casi più eclatanti, quello dello scippo delle riserve previdenziali dei lavoratori dell’ex-Cassa di Risparmio di Roma.
Pochi giorni prima della caduta, la dichiarazione dei circa 5.000 esuberi conseguenti al Progetto Banca Unica (questa volta prevalentemente nel centro-nord Italia…) e la richiesta insistita di deroghe al contratto nazionale sul terreno della mobilità hanno rappresentato la ciliegina sulla torta, costando all’AD la nomea di Marchionne del credito.

Visto poi che l’argomento è sempre popolare (anche se talvolta viene agitato in chiave populistica) occorre ricordare che il Gruppo Unicredit è sempre stato in prima fila nell’elargire ricchi bonus e scandalose stock options al top e middle management .
Profumo, personalmente, è sempre stato, uno dei banchieri più strapagati (e non solo a livello italiano) sia negli anni buoni sia in quelli cattivi (5, 10 persino 15 milioni di euro all’anno). Insomma, l’equivalente di quando percepiscono un migliaio di maestre d’asilo.
L’aver richiesto, contrattato e ottenuto una buona uscita di circa 40 milioni di euro, secondo noi, qualifica non il manager ma l’uomo, soprattutto in presenza di una difficile situazione aziendale e di una dichiarazione, come detto, di circa 5.000 esuberi.
Un’ultima considerazione. Profumo si è sempre dichiarato favorevole all’incremento del peso del salario incentivante e discrezionale nella busta paga dei bancari, con la nefasta correlazione ad obiettivi quantitativi di vendita di specifici prodotti. Le conseguenze sulla clientela di tali politiche retributive e commerciali sono ben note.
Sotto la sua guida, Unicredit non solo non si è discostata da tali pratiche (comuni a tutto il sistema) ma ne è spesso stata una delle principali interpreti. Occorre sempre non esagerare nella personalizzazione dei fatti e, tuttavia, è proprio la banca di Profumo che si è distinta inondando il mercato italiano di derivati piazzati indiscriminatamente sia alle piccole medie imprese che agli enti della pubblica amministrazione. Un altro assai poco invidiabile primato, quindi.

Insomma, tutto sembra confermare i nostri assunti iniziali in base ai quali risulta davvero difficile distinguere la figura manageriale dal modello di Banca che la wave del capitalismo finanziario ha cercato di imporre anche nel nostro paese, dalla Legge Amato in poi.
Non a caso chi difende Profumo con maggior enfasi è chi questo modello l’ha definito, sostenuto, propagandato sino ad oggi: in primis le forze politiche del centro-sinistra, con il loro influente milieu accademico, giornalistico e sindacale. Da questo punto di vista, la presenza di Profumo alle code per le primarie rappresenta poco più di un dettaglio.
E non a caso, ancora, la vicenda personale dell’AD di Unicredit diventa il pretesto per un nuovo attacco frontale alle Fondazioni (ex) bancarie, agitando questa volta lo spauracchio Lega.

E’ questo un punto decisivo sul quale è necessario fare estrema chiarezza.
Il fatto che la Lega, dopo aver ottenuto in più occasioni risultati elettorali importanti in molti dei territori dove sono storicamente radicate le Fondazioni, cerchi di inserire i propri uomini nelle “stanze dei bottoni” e da lì provi ad indirizzare l’attività delle banche partecipate ci sembra del tutto normale.
L’avversione ai leghisti e all’establishment borghese delle Fondazioni non può e non deve farci dimenticare che abbiamo sempre sostenuto la necessità di mantenere un legame (o quanto meno un canale di comunicazione forte) tra territori, società e Politica e la gestione delle banche privatizzate e che, nell’attuale situazione italiana, le Fondazioni (con la loro insopprimibile origine pubblica) rappresentano l’unico, seppur imperfetto, canale per farlo.
Negare ciò sarebbe come non chiedere più le nazionalizzazioni perché c’è Berlusconi al Governo o non rivendicare più il controllo operaio perché l’egemonia di classe è in mano ai sindacati concertativi.
Le dure lezioni impartite dalla crisi finanziaria e l’impatto differenziato sul sistema bancario italiano dimostrano, oltre tutto, che abbiamo sempre avuto ragione noi, opponendoci a chi voleva azzerare l’influenza delle Fondazioni riducendole al ruolo di meri rentier.

Il nostro problema con la Lega va risolto, per così dire, a monte e a valle del loro ingresso nelle Fondazioni. A monte, perché dobbiamo cercare di impedire che prendano così tanti voti. A valle, perché dobbiamo eventualmente saper contrastare e denunciare politicamente il loro operato “nelle stanze dei bottoni” (come si faceva contro la vecchia DC, padrona delle banche).
Insomma, se la Lega si batte ed ottiene canali di finanziamento privilegiati per asili alla Adro, per speculazioni immobiliari nei capoluoghi veneti, per la guardia padana o per le piccole imprese con padroncini padani da almeno tre generazioni dobbiamo opporci strenuamente. Ma se riesce ad evitare lo spostamento di un call center bancario da Verona a Tirana siamo d’accordo o no?

La nostra marginalità nel dibattito economico e finanziario italiano è oggi persino superiore (ed è tutto detto) a quella politica. Ci tocca quindi assistere, impotenti, a battaglie che oppongono (e non è certo una novità) frazioni del capitalismo nostrano ed internazionale senza poter parteggiare per nessuna delle parti in causa.
E tuttavia occorre sempre, per i comunisti, saper individuare il nemico principale e dire le cose come stanno o, almeno, come noi le vediamo dal nostro punto di vista di classe.

Claudio Bettarello
Ufficio Credito ed Assicurazioni PRC