La brutalità della violenza è segno di impotenza

Non sono molti i docenti che, negli Stati Uniti, possono sedersi dietro una cattedra universitaria, parlare per ore di Stalin o di Robespierre ed essere ascoltati con interesse. Uno di questi è Slavoj Zizek, fustigatore delle ideologie della tolleranza e dei diritti umani e partigiano dell’ateismo come sola eredità europea per cui valga la pena di combattere. Con lui affrontiamo alcuni dei temi che ha sviluppato recentemente, nel corso di una serie di conferenze, alla Ucla di Los Angeles, dove lo abbiamo incontrato, e all’Art Center College of Design di Pasadena.

Nel corso dei suoi recenti incontri in America, lei ha parlato spesso delle questioni legate alla violenza. Ci vuole spiegare come intende la necessità di ripensarne, soprattutto a «sinistra», il rapporto con la politica?

Specialmente a «sinistra» si fa molta confusione. Prendiamo l’uso che si fa di alcuni autori, Schmitt e Benjamin, per esempio. I concetti di «decisione» e «eccezione» sono usati da Schmitt per obliterare la distinzione fondamentale che attraversa la riflessione di Benjamin, cioè quella tra una violenza «mitica» e una violenza «divina». Quest’ultima non esiste per Schmitt, il quale riduce il fenomeno a una violenza dell’«eccezione», che produce la legge. Ora, quando si civetta, a sinistra, con Benjamin, si pensa meno alla violenza che al suo spettro. La violenza, per questi autori della sinistra, non ha mai luogo realmente. Mi spiace per loro, ma Benjamin è molto preciso: l’esempio che offre di «violenza divina» è quello di una folla che lincia i governanti corrotti! Qualcosa di molto concreto.

In un suo recente testo titolato «Robespierre, or the Divine Violence of Terror», lei parla dei «rivolte per il cibo» delle favelas di Rio de Janeiro degli anni ’90. E le mette in relazione con il modo in cui intende il concetto di «violenza divina». Quale è il nesso?

Quando sono stato a Rio vedevo come la gente scendesse dalle favelas verso il centro della città, saccheggiando e terrorizzando i cittadini «per bene». È impressionante il modo in cui questi fatti sono stati percepiti: inizialmente è stato come se questi zombie arrivassero dal niente, come una catastrofe «divina». La violenza delle favelas aiuta a comprendere il suo carattere strutturale e «oggettivo» nelle società contemporanee. Balibar ha sviluppato questo aspetto, riprendendo la tradizionale concezione marxista di una violenza implicita al funzionamento del capitalismo. Oggi, invece, siamo affascinati da quella che, seguendo Badiou, possiamo chiamare violenza «soggettiva», praticata da soggetti ben definiti. Ma è un errore concentrarsi esclusivamente su questa dimensione. Talvolta, ad esempio, dimentichiamo che la violenza non è necessariamente un’azione, può risolversi anche in un gesto di sottrazione, nel rifiuto di agire.

Lei crede che il problema della violenza sia all’ordine del giorno per una critica efficace di questo capitalismo?

Il ruolo del rivoluzionario implica senz’altro la forza, ma è anche vero che la brutale esplosione di violenza è spesso una ammissione, in sé, di impotenza. Per parte mia non accetto, per esempio, la vecchia equazione trotzkista per cui Lenin si identifica con la rivoluzione e Stalin con il Termidoro. Stalin ha impiegato davvero la violenza per cambiare alla base i fondamenti della società sovietica, era una operazione difficile e ha fallito. Tutte le manifestazioni di violenza nel XX secolo, al di là delle pur grandi differenze, riproducono quel fallimento. Ma il problema sta nel fatto che la vera questione della rivoluzione non è la presa del potere, ma ciò che ne facciamo il giorno successivo, come riarticoliamo la vita di ogni giorno.

Come interpretare, in questa prospettiva, fenomeni come quelli delle banlieues francesi?

Niente a che vedere, naturalmente, con ciò che blaterano tipi come Alain Finkielkraut, sostenendo che si tratterebbe di un attacco islamista contro i valori repubblicani. Sono state le moschee, per prime, a venire bruciate. Ecco perché i fondamentalisti si sono pronunciati subito contro i disordini. I giovani delle banlieues intendevano «soltanto» dire: siamo qui e siamo di qui. Un modo per affermare la propria esistenza, una pura richiesta di visibilità. È un chiaro esempio dei limiti delle nostre democrazie, in cui masse enormi di persone non si trovano nelle condizioni di esprimere le proprie richieste più basilari nel linguaggio politico ordinario. È un fenomeno che rimanda un po’ a quella che Jakobson chiamava comunicazione «fatica»: non «voglio questo o quello», ma semplicemente «sono qui».

Lei insiste spesso, polemicamente, sulla necessità di non abbandonare le categorie marxiste dell’analisi di classe. Ma quando parliamo, appunto, di favelas o di banlieues, non stiamo appunto di fronte a forze «politiche» che rimettono in questione le categorie marxiane?

Il modo in cui cerco di risolvere il problema è ridefinendo il concetto stesso di proletariato, in modo simile a Badiou e a Rancière, attraverso l’idea di singolarità universale. Mi riferisco a coloro che sono parte di una situazione senza avere in essa un «posto» specifico: sono inclusi ma al tempo stesso esclusi dall’edificio sociale. Il concetto stesso di proletariato diviene una categoria mobile. Ma il problema – enorme – è come legare questa conclusione all’economia politica. Non ho una soluzione. Dobbiamo abbandonare o conservare la teoria del valore? Interpreti diversi come Alain Badiou o Fredric Jameson sostengono che non è la conoscenza dei meccanismi del capitalismo a far difetto, ma che il vero problema è l’invenzione di nuove forme della politica. Io però non credo che noi possediamo oggi una conoscenza approfondita di come il capitalismo funzioni. L’intera struttura concettuale marxiana è basata sulla nozione di sfruttamento. Ma come funziona oggi lo sfruttamento? Tutti i termini impiegati per descrivere la fase attuale, come «società post-industriale», «società dell’informazione» o «del rischio» non mi sembrano altro che formule giornalistiche.

Che importanza ha, in questa ottica, il tentativo di ridefinire il concetto stesso di «lavoro produttivo», come ad esempio è stato fatto utilizzando la categoria di moltitudine per ripensare la forma contemporanea della classe?

Proprio questo punto mi lascia perplesso. Mi chiedo: dobbiamo pensare che esista una economia specifica anche degli slums e delle baliueues, un mercato illegale e estremamente dinamico, senza alcuna regolazione…

Una forma pura di neoliberismo?

Esatto. Non dobbiamo dimenticare che, sebbene sottratte al controllo statale, le favelas sono comunque integrate nelle dinamiche dell’economia. Ancora più interessante della questione relativa al lavoro produttivo o improduttivo, è il fatto di capire come alcune forze economiche al tempo stesso non esistano in quanto tali eppure siano pienamente integrate nella rete del capitale. Prendiamo l’economia dell’Afghanistan recentemente «liberato». È stato infine reintegrato nell’economia mondiale, sebbene il suo prodotto più importante sia l’oppio. Queste ambivalenze rendono estremamente ambigua la categoria di moltitudine. Sembra che sia lo stesso capitalismo contemporaneo a avere i medesimi predicati di quella che Negri e Hardt chiamano moltitudine. Lo stesso si può dire per la questione dello Stato. Sono sempre più scettico verso la logica anti-statalista di larga parte della sinistra, mi sembra che sia la stessa logica della destra. Non vedo, inoltre, nessun segno della cosiddetta «estinzione» dello Stato, al contrario. Perfino qui negli Stati Uniti, ad esempio, quasi ogni volta che si determina un conflitto tra la società civile e lo Stato, mi ritrovo ad essere dalla parte di questo piuttosto che di quella. Lo Stato deve intervenire spesso contro una destra particolarista, che vuole estromettere ad esempio l’insegnamento dell’evoluzionismo dalle scuole. Penso sia importante quindi, per la sinistra, influenzare o usare o perfino occupare, quando possibile, lo Stato e i suoi apparati, anche se naturalmente non è una condizione sufficiente. Credo comunque che dovremmo respingere il linguaggio della «deterritorializzazione» o dell’autorganizzazione, a favore di qualcosa che è oggi un tabù per la sinistra, cioè un’idea più forte di Stato. Quasi tutti i conflitti contemporanei, specialmente nel Medio Oriente, sono strutturati intorno alla questione del territorio. Credo che la sinistra dovrebbe cominciare a pensare in termini di «liberazione di territori».

Ma la sinistra a cui lei si riferisce, usando il termine «deterritorializzazione», non intende piuttosto segnalare le trasformazioni che rendono più opaco non solo il confine fra lavoro produttivo e improduttivo, ma anche la possibilità stessa di «localizzare» il territorio dello sfruttamento, ormai diffuso nell’intera sfera sociale?

Prendiamo il testo di Negri e Hardt Moltitudine. C’è un intermezzo dedicato a Bachtin e al carnevale con cui non sono assolutamente d’accordo. Carnevale è un termine estremamente ambiguo, usato più spesso dai reazionari che dai rivoluzionari. Il capitalismo odierno è un carnevale! I linciaggi del KKK erano un carnevale! Il modello per la teoria del carnevale di Bachtin, prodotta negli anni ’30, erano le purghe staliniane: oggi nel comitato centrale, domani a cavallo di un asino! Per quel che mi riguarda, mi oppongo con forza a questa visione carnacialesca della liberazione. Nelle dinamiche del capitalismo moderno, l’opposizione tra un rigido controllo statale da un lato e una liberazione carnevalesca dall’altro, non è affatto efficace. Sono d’accordo con quanto afferma Badiou nell’intervista pubblicata di recente sul manifesto: «coloro che non hanno niente, hanno solo la propria disciplina». Ecco perché non mi dispiace definirmi ironicamente un «fascista di sinistra».

Sarebbe il potere, quindi, a incarnare il carnevale?

Certo. La trasgressione è l’ideologia oggi dominante. Ciò di cui dobbiamo riappropriarci è proprio un linguaggio della disciplina di massa, e persino un «spirito di sacrificio». Per tornare a Moltitudine, nelle ultime pagine la posizione è quasi teologica e tutto il discorso sulla resistenza si basa solo sull’immaginazione di un collasso dell’Impero. Da volgare empiricista quale sono, ho difficoltà a comprendere concretamente il senso di questa implosione…

Andiamo allora sul concreto. Quando si riferisce a «territori liberati», pensa sia possibile vedere in un movimento di massa come Hezbollah, una forma di organizzazione politica non completamente riducibile alla sua dimensione teologica?

Non vedo alcuna ambivalenza. Non sono convinto del discorso per cui organizzazioni come Hamas o Hezbollah sarebbero «non solo razzi ma anche servizi sociali». Questo vale per qualsiasi regime fascista. La rivoluzione iraniana, da questo punto di vista, è stata un vero evento. Ciò che vediamo oggi in Iran è un regime populista e conservatore che tappa la bocca ai poveri coi soldi del petrolio. Inizialmente è vero che l’Islam ha giocato un ruolo determinante, legato com’era alle posizioni più progressiste e di sinistra. Ma in pochissimo tempo i conservatori hanno preso tutto il controllo. Badiou parla di Hezbollah come di una nuova forma di organizzazione al di fuori dalla logica statuale e di partito. Ma ciò che emerge mi sembra essere piuttosto una chiusura radicale dello spazio sociale. Quale tipo di società viene proposta? Le questioni sono quelle dei lavoratori, delle donne, dell’emancipazione in generale. Dove vediamo questa emancipazione in opera? Non è una domanda retorica. Sono un impenitente eurocentrico e il problema più grande è per me la soluzione politica della questione palestinese. La necessità, cioè di uno Stato secolarizzato. È questo l’obiettivo di Hamas o di Hezbollah? O è solo la distruzione di Israele, la cacciata degli ebrei in mare? Non mi sento di schierarmi con queste forze, solo in nome di una solidarietà anti-imperialista.